Febbre da cavallo, di Steno (1976)

Febbre da cavallo appartiene ai cosiddetti cult del cinema italiano.
Ma che vuol dire cult?
Si potrebbe dire, senza timor di smentita, che il termine attiene al culto, persino all’adorazione. Di un film cult si citano le battute a memoria, se ne adotta la colonna sonora come sveglia o suoneria. Si indossano t-shirt e accessori celebrativi, si organizzano eventi a tema.
Ho l’impressione che nei discorsi sul cinema il cult rappresenti la rivincita della minoranza sulla maggioranza coi favori del tempo: un film apprezzato da pochi eletti si afferma con il passaparola, circola clandestinamente per vicoli imprevedibili di consenso, finché all’improvviso l’ignominia è per chi ne è a digiuno e non ne comprende la bellezza.
Ecco, Febbre da cavallo è un cult. Dopo aver ottenuto riscontri poco lusinghieri al botteghino e critiche alquanto tiepide nel ’76, con i passaggi televisivi degli anni ‘90 il film di Steno entra nelle case degli italiani e vi resta, tra la sala da pranzo e il divano, fino a oggi.
Seconda domanda, allora, quella a cui dedico il senso di questa recensione.
Qual è il segreto di questo successo tardivo?

Gigi Proietti, indiscusso protagonista del film col suo Mandrake, soleva rispondere:
“Semplicemente perché fa ridere”.
Ed è impossibile smentirlo.
Mandrake, Pomata, Felice dedicano la loro vita a scommettere sui cavalli “vincenti”: indebitati, gretti, disonesti, maschilisti ordiscono truffe grottesche per raccattare denaro da puntare e, inevitabilmente, perdere. Maltrattano commercianti operosi e creduloni, sviliscono donne incautamente affezionate, raggirano chiunque alla ricerca di una svolta impossibile. L’ho scritta volutamente così, omettendo i giochi di parole scanzonati, i tormentoni, la mimica guascona, per intravedere, se possibile, le ragioni di quella risata che il film sapeva “semplicemente” evocare.

Cito un piccolo compendio di Monica Malfatti sul “ridere” rintracciabile a questo link:
Alcuni studi neuroscientifici sostengono che la risata altro non sia che una reazione nervosa di fronte ad un rischio o ad un pericolo. L’uomo preistorico, quindi, abbozzava un ghigno in momenti di estrema tensione, di fronte a fenomeni che non era in grado di controllare. Di qui, l’evoluzione del sorriso e del riso come lo conosciamo oggi. Quando la paura di un pericolo diventava sollievo per averlo infine scampato, il riflesso condizionato incarnato da questo ghigno restava in volto, evolvendosi infine in qualcosa di simile a ciò che ridere significa per noi: un gesto estremamente catartico ed esorcizzante, che ci differenzia dagli animali.

Mi piace questa spiegazione e trovo che si sposi a pieno con la riscoperta di Febbre da cavallo. I suoi protagonisti, nella cornice familiare del televisore casalingo, sono mostri gestibili: si ride del loro essere crudeli quanto falliti, bugiardi quanto sciocchi, anarchici quanto dipendenti dal vizio.
Ho pensato anche che la risata fosse una conseguenza del sentirsi alleggeriti dal timore di fallire e di restare soli con i propri fallimenti.
Nello splendido finale in tribunale, i tanti personaggi del film danno vita a un affresco sociale allegro e irriverente, un coro in cui non si sta poi così male e la dedizione autolesionista si eleva al senso di un’appartenenza universale.
Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto;  tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano”.

Se al principio l’islandese di Leopardi si era scagliato contro gli uomini affannati a inseguire desideri insensati, al termine del suo viaggio solitario per il mondo è alla Natura che rivolgerà le sue accuse per conto dell’intero genere umano:
“[…] mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere.

Nonostante i fatti lo smentiscano, er Pomata (un bravo Enrico Montesano) si autocelebra così: “Ma poi io che leggo a fa’, che leggo a fa’, c’ho tutto qui nella capoccia, so’ un computer equino, a me me dovrebbero da’ ‘na laurea in scienze del cavallo”.
La battuta, invecchiata meno bene di altre, rende conto del periodo in cui la parola “computer” iniziava a circolare con quanto prometteva: l’estensione di un dominio dell’uomo sul caso, sulla realtà, sulla Natura.
E sì che il ‘76 era all’insegna dell’incertezza e a qualcosa bisognava aggrapparsi. Mafalda, amica e collega di Mandrake, rammenta sulla passerella che se non ci fosse stata la crisi di certo non sarebbe stata lì “a dare il culo”, impellicciata in pieno agosto. Dopo gli anni del boom, era cominciata nel ‘74 la recessione. Inoltre, siamo nel pieno degli anni di piombo.

Nella strepitosa scena della corsa tra Madrake ed er Pomata, a cavallo di Bernadette e Soldatino, il cavallo assurge a strumento di piacere e riscatto effimero ma essenziale: vincere almeno una volta nella vita, dunque, governando il caso, a qualsiasi costo. Un eros che Mandrake non riesce a coniugare altrimenti: se perde al gioco, infatti, cade nell’impotenza e ne fa le spese la bellissima Catherine Spaak, che interpreta Gabriella, una donna efficiente e ambiziosa sul lavoro, appassionata e devota tra le lenzuola, superstiziosa, all’ostinata ricerca del matrimonio per governare il caso, anche per lei, sollievo da ottenere a qualsiasi costo.
La sfida dei personaggi della commedia di Steno non è altro che una resa all’illusione, un cedere le armi incondizionato, una sorta di rinfrancante quadretto del miserabile che precorre i tempi: colpevole della sua marginalità, infunzionale senza essere disfunzionale, il perdigiorno non produce ma disinnesca il suo sogno di rivalsa nell’attesa che la storia cambi per caso, per caos o per grazia ricevuta.
Febbre da cavallo fa ridere, è un cult di cui si può sghignazzare rammentando questa o quella scenetta, ma non è una commedia banale, tutt’altro.

Potrei citare il meraviglioso monologo di Gigi Proietti alias Mandrake sul costo delle uova, scompenso intorno a cui la massa potrebbe raccogliersi ed evocare gli spettri di una terribile rivoluzione (il PCI era stato primo partito nel ‘74; nel ‘90, quando il film è riscoperto, è già a brandelli). Potrei richiamare il Carosello impossibile del Vat 69, il finto funerale organizzato dal Pomata, il trascinante avvocato de Marchis interpretato da Mario Carotenuto, l’istrionico Mandrake in tribunale o le “maschere” e i luoghi di Roma che non è schiava se non di se stessa.
Ma preferisco soffermarmi, per concludere, su un’altra sequenza.
I nostri sono sul Lungo Tevere. Mandrake non sa come rimediare ai guai in cui si è cacciato per non aver giocato la fatidica tris Soldatino, King e D’Artagnan ispirata da Gabriella, e propone una mandrakata, l’unica che nel film non sarà realizzata.

“No io pensavo, no? Se io sparissi. Gli lascio una lettera a Gabriella in cui io confesso tutto. E dico che m’ammazzo. Per modo de di’. Poi dopo tre giorni lei s’angoscia – carabinieri, pompieri, sommozzatori per scandaglia’ il fiume, televisione, un casino – poi dopo tre giorni me ripresento…”
“E lei t’ammazza per davero. E stavorta ci avrebbe proprio ragione, non mi pare un’idea geniale ” – risponde er Pomata – E poi non sia mai che in quei tre giorni, diciamo così di disperazione, vai a scopri’ che lei non si angoscia per niente?”
La camera intanto è scivolata alle spalle di Proietti, molto lentamente, un movimento rarissimo al cuore del film.

“Ma come sarebbe a di’ che non s’angoscia per niente, oh!”
“Perché non è possibile?”
Felice si infila nel discorso: “Le donne sono imprevedibili”.
Sempre di spalle, Mandrake esita nella risposta: “E allora vorrà dire che…”
“Che?” – rincara er Pomata.
“Che io ritorno a casa uguale e… E so’ io che ammazzo a lei. E voi altri andate un po’ affanculo per piacere”.
Mandrake si alza e si allontana. Poi, dopo un attimo di silenzio imbarazzante in cui la battuta decanta, compare l’avvocato de Marchis intenzionato a gettarsi nel Tevere sulla celebre colonna sonora di Bixio-Frizzi-Tempera.
In questo breve passaggio, la regia prevale sulla sceneggiatura e svela gli abissi da cui l’italiano si deve affrancare, uno smarcamento da celebrare con la risata possibilmente davanti al piccolo schermo, dove tutto è più piccolo.

Febbre da cavallo è un film che fa ridere, ma non fa semplicemente ridere.
L’arte del far ridere non è mai semplice e Gigi Proietti lo sapeva bene, perché ne è stato uno straordinario maestro. Tra la prima irrilevante uscita di Febbre da cavallo e la sua consacrazione, Proietti si farà conoscere  per il suo teatro e otterrà un successo straordinario  con “A me gli occhi, please”.
Quanto la felice riscoperta del film di Steno sia dovuta a quell’amore sbocciato e mai sopito tra Proietti e il pubblico, e quanto alle cazzate che ho scritto finora, è l’ultima domanda di questo pezzo.
“Non so che dirti, ma anche se te lo dicessi, che te lo dico a fa’.”
Grazie, Mandra’.

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