di Marzia Procopio
“Fin da giovane ho sempre amato i linguaggi dell’arte. Mi paragono a un semplice postiglione che affida la sua piccola diligenza della vita a più cavalli. Una volta tira uno, una volta un altro, e così c’è ricambio e riposo per tutti”. Così si descriveva, Mario Verdone, nato ad Alessandria da padre napoletano e madre senese nel 1917 e vissuto per 50 anni a Roma, dove fu direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia e Ordinario di Storia e critica del cinema all’Università La Sapienza.
“Sono nato in viaggio – disse in un’intervista – e questo ha condizionato moltissimo la mia vita e la mia mobilità”.Il padre Oreste era morto nella grande guerra prima della sua nascita, Mario fu educato prima a Siena, poi dal mondo, e adorava Roma perché “niente di ciò che è umano le è estraneo. Né è estraneo a me”.Amico di René Clair, stimato e apprezzato dagli studiosi di tutto il mondo, studioso del futurismo, divenuto giornalista giovanissimo, nel 1940 si laureò con Norberto Bobbio, che lo accolse subito tra i suoi assistenti e gli si legò fin da subito in un’amicizia durata per sessant’anni e nata dalla comune avversione al fascismo.
L’8 settembre 1943 lo sorprese in Toscana come sottufficiale destinato alla fortezza-deposito di Livorno al comando di un piccolo distaccamento di riservisti e ragazzi. Quando arrivarono i tedeschi, il sottotenente Verdone ordinò di non fare resistenza e consegnare le poche armi in dotazione all’avamposto. I tedeschi ripartirono subito, richiamati da un bombardamento intorno al porto di Livorno, lui diede l’ordine di togliersi l’uniforme e di mettersi in salvo.
Tornato a Siena, una settimana dopo si arruolò con i partigiani della brigata Monte Amiata. Non appena seppe che il patrimonio della cineteca del Centro sperimentale di cinematografia di Roma era in pericolo, insieme con alcuni colleghi e impiegati del Centro seppellirono le copie di alcuni capolavori sovietici, di Ejzenstejn e Pudovkin: Sciopero, Ottobre, La corazzata Potëmkin, La terra, Arsenale, La madre.
Intellettuale poliedrico, fu cronista e poligrafo (Alberto Savinio ne giudicò ‘fine’ la prosa): scrisse testi teatrali, poeta, critico d’arte, librettista, regista cinematografico, critico letterario, storico del teatro e del cinema, studioso dello spettacolo popolare e del circo. All’attività letteraria, che gli meritò diversi riconoscimenti, poté dedicare soprattutto gli ultimi venticinque anni della sua vita, perché il lavoro al Centro sperimentale, il giornalismo, l’attività saggistica, la docenza, la regia come documentarista, non gli avevano permesso di diventare uno scrittore a tempo pieno.

Le sue lezioni di storia del cinema, novità assoluta nel panorama didattico dell’università di allora, mescolavano pittura, teatro, letteratura, fotografia, musica arte e cinema. Raccontano i suoi allievi che il professore proiettava il film, rigorosamente in 16 millimetri, e poi lo analizzava, sequenza per sequenza, tirando fuori con precisione filologica tutti i rimandi, sia estetici sia di linguaggio: il dadaismo di Clair; il cinema dadà-surrealista di Léger e Ray; quello surrealista di Buñuel; l’espressionismo di Murnau e Lang e quello ‘psicanalitico’ di Pabst; il cinema di L’Herbier, i sovietici; il cinema astratto di Otto Fischinger, Orson Welles, e poi il neorealismo, il primo Fellini, Kurosawa e così via. Sempre libero nel giudizio, non considerava Bergman un indiscutibile; apprezzava Buñuel, amava Ozu e scoprì Manuel De Oliveira. Conosceva gli aspetti tecnici – le correzioni di fuoco, gli scavalcamenti di campo, i raccordi di montaggio – ne capiva le funzioni espressive; usava la capacità di giudizio critico e le sue conoscenze non per distruggere, ma per segnalare e costruire. Sempre disponibile con gli studenti, una chiarezza di esposizione rara, mai di fretta, mai nervoso, alle sue lezioni parteciparono molti futuri registi, fra cui Luchetti e Ozpetek.
Nel giugno del 1965, quando arrivarono i Beatles a Roma, il professore, pur essendo molto arrabbiato col figlio, che era stato bocciato in quarta ginnasio, comprò due biglietti per il concerto e ce lo portò, perché era sempre attento alle nuove tendenze giovanili. Non aveva preconcetti, non si lasciava influenzare dagli snobismi altrui; l’ultimo film che vide fu Across the Universe, e gli era piaciuto così tanto, così ricco di musica e genuino, che chiamò al telefono la regista Julie Taymor per farle i complimenti, perché per lui contavano le emozioni che il cinema sa trasmettere.
Quando incontrò Akira Kurosawa, vi fu un memorabile scambio di inchini reciproci in cui, inchinandosi alternativamente e piegando sempre più la schiena in segno di rispetto, arrivarono quasi a toccare entrambi il suolo con la fronte. Fu docente di cinema di Garcia Marquez, che considerava “svogliato ma acuto” – “gli piaceva troppo la letteratura, marinava le lezioni pratiche, ma non le mie” – e che lo presentò poi a Fidel Castro, nel 1990, all’inaugurazione della Escuela de Cine di L’Avana. Morì il 26 giugno 2009, a novantadue anni, dopo una settimana di malattia, senza soffrire, e dopo aver messo al mondo con la moglie amatissima Rossana Schiavina Silvia, Luca e Carlo Verdone.

Carlo Verdone uno degli attori più amati del Cinema Italiano suo padre Mario entrato nella Storia della Cinematografia personaggi così nn ce ne saranno più
"Mi piace""Mi piace"