Di A.C.

Gregorio (Verdone), Vanni (Rubini) e Livia (Neri) sono tre fratelli dalle vite e personalità diverse: il maggiore Gregorio un deejay immaturo dalle aspirazioni musicali fallite, il secondogenito Vanni un virtuoso del pianoforte ma prigioniero di un certo moralismo senza alcuna dimestichezza pratica con gli aspetti della vita, la sorella minore Livia una donna volubile e incastrata nella crisi di un rapporto triangolare tra un matrimonio infelice e un amante che cerca di spingerla ad abbandonare il tetto coniugale.
La misteriosa scomparsa del loro padre, noto scultore, li unisce in una ricerca che sa quasi di una caccia ai fantasmi, confrontandoli tra di loro, nel bene e nel male, e inducendoli a ricordare il loro passato familiare e a tirare, quindi, le somme del loro presente.

Non è certo un segreto la quantità di elementi di vita personale nella filmografia di Carlo Verdone, in particolar modo in quella del primo ventennio. O per via dei personaggi da lui incarnati, spesso delle macchiette ma sempre portatori delle sue nevrosi, oppure per la presenza diversi elementi autobiografici come testimonia il suo “Compagni di scuola” di qualche anno prima.
“Al lupo al lupo” rientra anch’esso in questa seconda fattispecie, anzi è forse il film più intimo e introspettivo che Verdone abbia mai dato alla luce.
Tratto da diversi elementi di vero vissuto del regista romano, anch’egli il primo di tre fratelli, anch’egli dal padre illustre (Mario Verdone, critico e saggista cinematografico), il film è il suo confronto più maturo con quelle paturnie che hanno caratterizzato fin da subito la sua produzione.

Verdone sceglie sì un soggetto estremamente personale, ma bilancia l’autobiografia con un racconto corale, in cui non cerca di risaltare sé stesso nel contesto e offre il medesimo spazio ai suoi tre protagonisti, alle loro storie e al loro comune sentimento di amore/odio verso una figura paterna assente e al tempo stesso ingombrante, amabile e al tempo stesso detestabile.
Una commedia malinconica che dietro la facciata di un viaggio “on the road” fa da disamina dei malesseri sopiti di una famiglia disunita dai propri egoismi eppure riunita da un legame di affetto impossibile da sopprimere.
Un Verdone inconsueto nella sua seria psicoanalisi che pur non ripudia la sua immancabile comicità, la quale però ha il suo giusto peso nella narrazione, senza eccessi o forzature. Infatti vi sono anche qui le tipiche gag del repertorio “verdoniano”, ma mai invadenti all’interno del racconto.

Poco considerato rispetto ad altri titoli più iconici, eppure è la sua maggiore prova di maturità dietro la macchina da presa e con buona probabilità il suo migliore lavoro sul piano della sceneggiatura e della direzione degli interpreti. A dimostrazione di qualità narrative, che pur non avendo mai toccato livelli di eccellenza, avrebbero potuto essere spese meglio. Soprattutto se si pensa al Verdone attuale, che da vent’anni abbondanti trascina il suo cinema in un baratro di involontaria autoparodia.
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