Compagni di scuola, di Carlo Verdone (1988)

di Antonio Sofia

Quando nella redazione di Re-movies ci siamo riproposti di dedicare tre giorni a Carlo Verdone, non ho avuto dubbi e mi sono lanciato su Compagni di scuola.
Non ho avuto dubbi perché Carlo Verdone l’ho avuto sempre in simpatia, ho visto tutti i suoi film, da attore e regista, e sapevo che lo stesso Carlo ha per questo film un affetto particolare.
Proseguendo nel tracciato avviato con Io e mia sorella, nel 1988 Verdone decide di allontanarsi dalla commedia dai toni satirici che l’ha reso ormai familiare agli italiani per mettersi alla prova come autore più complesso.
La sfida è ambiziosa. La commedia all’italiana ha già avuto il suo momento più nobile e si sono fatti avanti nuovi interpreti, accomunati da una caratteristica evidente: sono attori. Oltre allo stesso Verdone, alla regia si fanno largo Benigni, Troisi, Benvenuti, Moretti, Nuti, Nichetti.
Nel primo semestre del 1989 tre film italiani sono nella decina dei più visti al Box Office: Il piccolo diavolo di Benigni, Caruso Pascoski di Nuti e, per l’appunto, Compagni di scuola.

Possiamo dire che l’esperimento di Verdone fu un successo?
Proviamo prima a capire in cosa Compagni di scuola è diverso dai suoi film precedenti e forse anche dai successivi.
Aveva le idee chiare in merito Cecchi Gori, assai perplesso sull’opportunità di produrre la pellicola: la sceneggiatura non faceva ridere abbastanza, era troppo amara. In più lo script presentava più di venti personaggi che interagivano davanti alla macchina da presa, in uno sviluppo corale impegnativo, rischioso. Eppure il soggetto è riassumibile con la brevità esaustiva delle grandi idee: un gruppo di compagni di classe decide di rivedersi a cena quindici anni dopo la maturità.

Verdone ha rivelato di esser stato coinvolto in prima persona in un evento analogo, risoltosi in una serata assai infelice. Si persuade a puntare su quell’esperienza anche sulla scia di un film di qualche anno prima, destinato a far riflettere una generazione di americani: Il grande freddo di Lawrence Kasdan, del 1984. Kasdan racconta una reunion di vecchi “compagni di college” in occasione del suicidio di uno di loro (l’invisibile Kevin Costner), tentando di conciliare insieme il passato di chi invocava l’immaginazione al potere e il pragmatismo liberista reaganiano.
Anche in Compagni di scuola originariamente doveva esserci un morto: infatti ai personaggi ne manca uno, eliminato nel corso del trattamento, un prete suicida che avrebbe potuto appesantire troppo i toni gravi comunque presenti nel film. Sì, perché rivedersi quindici anni dopo la fine della scuola è per Verdone, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi – coautori della sceneggiatura – una sorta di resa dei conti con il tempo, con la spietatezza della vita e con la miseria umana: una messa in scena che si stacca dalla Storia per affrontare l’umano troppo umano, con sfacciataggine e incoscienza.

 “I problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto quasi la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che é morto, la logica dall’illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall’egoismo, la verità dagli errori?
(F. Nietzche)

Nei primi venti minuti del film Carlo si vede poco, giusto per una sosta lungo la strada per villa Scialoja (nella realtà villa dei Quintili, sulla Appia Antica, ora ci fanno i matrimoni) dove si terrà la rimpatriata: sui titoli di testa si ferma per urinare all’aperto e un serpente, quasi allegorico, gli passa sopra le scarpe. Sono i venti minuti di Piermaria Fabris, il personaggio dell’ottimo Fabio Traversa: segnato dal trascorrere degli anni, si presenta con un mazzo di fiori per la padrona di casa, animato di una bonaria aspettativa.
-Non mi riconosci? – chiede a Finocchiaro, interpretato dall’esordiente Angelo Bernabucci, un venditore di enciclopedie con cui Verdone era solito chiacchierare, coinvolto nel progetto per l’innata capacità di restituire la più feroce ironia romana.
-Tu c’hai avuto un crollo, dell’ottavo grado della scala Mercalli, però – è la risposta caustica.
Nessuno riconosce Fabris. Il dileggio si ripeterà con battute sempre più grevi, fino a costringerlo a lasciare la festa dopo una tragica ammissione: “Io non sono nessuno”.
Fabris esce di scena ed entra in campo Piero Ruffolo, er Patata, il personaggio di Verdone: insegnante di materie letterarie in un liceo privato, logorato nei nervi da un matrimonio infelice, rompe la pompa dell’olio su una radice di pino all’ingresso della villa, topos da casa stregata, che danneggia sin dal principio il mezzo per allontanarsene.

Non è possibile ripercorrere qui tutti gli archi narrativi dei “compagni di scuola”: le loro tante storie si alternano in una staffetta di illusioni e disillusioni, fallimenti e crudeltà reciproche. 
Christian De Sica merita una menzione particolare tra i tanti bravi attori coinvolti, se non altro perché è davvero stato a scuola con Verdone (ma aveva saltato la riunione di classe, a detta sua perché non invitato). Il suo Bruno Ciardulli è un cantante pop indebitato, che elemosina aiuto all’onorevole cocainomane (Massimo Ghini, il suo è uno dei primi politici a sniffare sullo schermo) e perde soldi che non ha al tavolo da poker, contro il finto paraplegico Lino Santolamazza, inscenato da Alessandro Benvenuti. Tra le donne spicca la psicanalista Maria Rita Amoroso di Athina Cenci, personaggio intenso e ben calibrato nel rappresentare l’illusione di un equilibrio recuperabile nell’autocompatirsi o nel compatire.
Verdone ha richiamato Eleonora Giorgi e Natasha Hovey, che aveva diretto in Borotalco e Acqua e sapone: la prima è l’alter ego der Patata, bloccata in un rapporto tossico; la seconda è un’allieva con cui Piero Ruffolo intrattiene un affair platonico, se non patetico.
Tutto il cast è ben accordato nell’esasperazione dei caratteri di un’umanità dantesca, una discesa agli Inferi per siparietti comici e degradazioni grottesche che si conclude al mattino, nella migliore inquadratura del Verdone regista: un campo larghissimo che riprende i compagni di scuola in una passeggiata sulle dune, spersi, distanti, in controluce.

E quindi uscimmo a riveder le stelle

Carlo Verdone rivendica con orgoglio l’idea che questo suo film non si fermi a irridere vizi e difetti di un’umanità circostanziata: Compagni di scuola restituisce la fragilità universale di uomini e donne che tentano di fissarsi negli occhi dei loro simili per la gioia o per il dolore che cagionano, si aggrappano alle cose e alle definizioni per non svanire come Fabris, come tutti, prima o dopo.
Verdone al suo film attribuisce l’atemporalità che il suo stesso soggetto pare escludere: c’è la morte, sullo sfondo, che l’invecchiamento richiama, l’origine del sentimento di finitezza e l’esaurirsi di ogni possibilità nella necessità. La morte è l’invitato di cui tutti parlano: nell’appello con Barbagallo assente perché morto di leucemia; davanti a un juke-box per indovinare come sono scomparse le rockstar di gioventù; in un coro che fa “Mai le dirò… Che muoio per lei” (i Giganti, Una ragazza in due); nel battito accentuato di una valvola mitralica artificiale, un cuore incontenibile, rivelatore come quello di Allan Poe; infine, nel sussurro di un vecchio cameriere che sollecita er Patata a dare una svolta alla sua mesta esistenza, con Lorenzo de’ Medici.

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Mi sono chiesto se il salto arrischiato da Carlo Verdone con Compagni di scuola sia stato un successo.
A questo punto, più di ventidue anni dopo, possiamo dire che è un film apprezzato, persino osannato da qualcuno. La sua intenzione era importante, senza compromessi: la stessa dei grandi romanzi, delle grandi musiche, delle opere meravigliose, dinanzi a cui trascorriamo, in migliaia, milioni, miliardi di essere umani.
Ma è riuscito a essere all’altezza di quell’intenzione? Verdone è diventato un autore?
Carlo Verdone, con gli altri attori-registi emergenti in quegli anni, dimostra di poter fare del buon cinema, dell’ottimo cinema, anche alle spese del linguaggio cinematografico stesso. La regia di Verdone non è una gran regia (non so se mai lo è stata o lo sarà), eppure riesce a tener testa a una messa in scena complicatissima, i cui quadri più popolati sono quelli più efficaci: probabilmente perché in quelle scene l’ottima sceneggiatura e l’istrionismo degli attori si fondono al meglio, l’immagine acquista pathos e lo spazio filmico si dilata.

Il film ha una sua approssimazione formale, è sovraccarico per scelte talvolta elementari o troppo forzate, eppure coglie nel segno, impressiona come luce sulla pellicola, in modo naturale, per quel tentativo genuino, autentico di mettersi alla prova e superare il limite.
Carlo Verdone ha ragione, ha realizzato un film che va oltre l’epoca che ritrae. Se non avesse osato, non avremmo avuto questo Compagni di scuola, un film coraggioso, quasi folle, che si fa ricordo e non ti lascia più. Ci riesce per il desiderio stesso che lo ha generato: quello di significare qualcosa di importante per qualcuno, lasciare un segno che duri, non soccombere al tempo che passa.

“Io so’ fatto così… ‘a battuta me piasce…”







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