Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus (2006), di Steven Shainberg

di Nicole Cherubini

“Da adolescente Diane Arbus aveva l’abitudine di stare in piedi sul davanzale della finestra nell’appartamento dei genitori all’undicesimo piano del San Remo su Central Park ovest. Stava lì, più a lungo che poteva, a fissare gli alberi e i grattacieli in lontananza, finchè la madre non la trascinava dentro. Anni dopo Diane avrebbe detto:”Volevo vedere se riuscivo a farcela. Per molto tempo ho sentito la mancanza di un mio regno.” Lo avrebbe scoperto più tardi con la macchina fotografica.”

“Diane Arbus: vita e morte di un genio della fotografia” di Patricia Bosworth

New York, 1958. Una donna come tante, principalmente devota alla cura della casa e delle figlie, viene incoraggiata dal marito fotografo a prendersi del tempo per sè: per provare a fare qualche foto, fare qualcosa di personale. La donna si arma di una Rolleiflex e si spinge fino ai luoghi più degradati della città, per conoscere e fotografare l’umanità più ai margini della società. Così nasce Diane Arbus, fotografa.

Un ritratto immaginario

Come recita il titolo stesso, il film non è un classico biopic, non lo è fin dalle intenzioni del regista. Partendo dalla biografia pubblicata da Patricia Bosworth nel 1987, Steven Shainberg se ne è poi notevolmente distaccato, cercando di descrivere quel momento in cui una donna abbandona la sua vita borghese per cercare una propria realizzazione personale.  Per cogliere questo delicato momento, in cui la ricerca artistica e quella identitaria si incontrano, Shainberg intesse un racconto in cui la fiaba ed il subconscio si mescolano al gusto per l’inconsueto, il proibito, il rimosso.

Lionel

Tutto ha inizio quando un nuovo inquilino, con il volto coperto da una maschera di stoffa, si stabilisce nel palazzo dove Diane (Nicole Kidman) vive con la famiglia. Come in una fiaba, una chiave le arriverà attraverso i tubi dell’acqua, per portarla dritta da Lionel (Robert Downey Jr). Solo salendo una rampa di scale fino al piano superiore Diane si ritrova in una sorta di universo parallelo: l’appartamento è una sorta di boudoir con le pareti dipinte del colore del cielo, arredato con tende, drappeggi, ciocche di capelli ovunque. L’uomo che lo abita non è meno peculiare. A causa dell’ipertricosi il suo corpo è infatti coperto da una folta peluria dalla testa ai piedi, che lui nasconde sotto abiti, maschere e guanti ogni qualvolta deve uscire. Lionel è quindi sì, molto particolare, ma è anche una persona intelligente, interessante, creativa (realizza parrucche), consapevole di non essere la sua malattia. Sarà la prima persona a cui Diane chiederà di poter fare un ritratto fotografico. Visto il contrasto estetico, è facile pensare ai due personaggi come alla “Bella e la Bestia,” ma Lionel non è un principe da salvare, né Diane una principessa. Come uno specchio, lui rappresenta il lato più nascosto, più oscuro, attratto dal sordido e dal proibito; tutto ciò che lei non può esprimere con familiari e amici. Loro accettano l’uno la natura dell’altro, non temono le altrui “stranezze,” il loro sembra quasi un incontro predestinato. Quando Diane chiede a Lionel perché le ha gettato la chiave del suo appartamento, lui risponde semplicemente:”Perché sembrava che avessi bisogno di venire su da me.” Come un novello Virgilio, sarà Lionel a portarla in giro la sera, a visitare quei posti che le era stato insegnato ad evitare: locali sadomaso, per travestiti, obitori. Diane entrerà sempre più in contatto con se stessa, con ciò che sente più vicino a sè come donna e come fotografa; con l’amore profondo per il marito e la nascente attrazione per Lionel. L’incontro con quest’ultimo porta Diane anche ad un risveglio dei sensi, ad una sessualità svincolata dal vincolo matrimoniale, più libera e fluida. Ma il rapporto tra i due, amicale o sensuale che sia, non ha nulla a che fare con le scappatelle extraconiugali; è in realtà un ricongiungersi alla propria natura più profonda e primordiale.

L’inconscio

Come detto in precedenza, questo non è un film strettamente biografico, né realistico. Il disagio crescente in cui Diane si trova, impantanata in una vita fin troppo ordinaria, viene illustrato sotto la chiave del subconscio.  Come una spettatrice, lei vede se stessa aggirarsi in un inquietante salotto, agghindata con una pelliccia, mentre una cameriera le porge un vassoio su cui è distesa una bestiola morta. Quest’immagine sinistra basta a descrivere il rapporto con i genitori, ricchi e invadenti pellicciai. Nella sua mente ricorrono le immagini di mani che le coprono gli occhi, occhi che bramano di vedere, e quindi di svelare la realtà. Anche il fatto che il suo “doppio” si manifesti sotto forma di un uomo coperto di peli non è certo un caso. Le persone “civili”, soprattutto le donne, si privano il più possibile della propria peluria per coprire la propria natura animale; salvo poi ornarsi con la pelliccia di bestie morte, come un crudele vessillo. Non a caso, quindi, Lionel si presenta come un uomo/bestia, in opposizione all’educata ipocrisia familiare.

Alice

Una figura come Lionel introduce una vera e propria componente fiabesca. Se c’è un personaggio onnipresente, pur senza apparire mai, è proprio Alice. La figlioletta di Diane va in bici per casa con un costume da coniglio, conigli bianchi abitano l’appartamento di Lionel; una chiave apre una minuscola porticina da cui Diane può spiare il suo passato.  La stessa scala che conduce al piano superiore sembra una porta per una dimensione “altra,” pur trovandosi nello stesso anonimo palazzo dove lei vive da tempo. Reale, fiabesco e rimosso si mescolano come in uno specchio appannato, da cui emerge un ritratto di donna via via più nitido.

Vedere

Nel film sono ricorrenti i primissimi piani di occhi: occhi intenti a spiare da grate o spioncini, occhi curiosi, occhi coperti per non vedere oscenità. Anche prima di scoprire la passione per la fotografia, è evidente come l’atto di vedere, per la Arbus, nonché quello di mostrare, sia assolutamente vitale, irrinunciabile; perché solo così si può conoscere, arrivare all’essenza dell’altro. All’inizio del film vediamo infatti Diane slacciarsi l’abito in balcone, di notte, e rimanere lì come in attesa di uno spettatore. In seguito confesserà a Lionel di essere stata sorpresa dal padre a mostrarsi in bagno da ragazza, come fosse un bisogno incontenibile. Il fatto di appassionarsi ai cosiddetti “freaks”, è forse dovuto al fatto che essi non potessero cercare di cammuffarsi con maschere sociali, e si offrissero all’obiettivo esattamente per ciò che erano.

Freaks

Anche se di fatto Diane Arbus ricercò sempre qualcosa di “stridente”, inconsueto, nei suoi soggetti, anche quelli “normali,”la sua produzione è senza dubbio legata ai freaks. Questo termine, indicante tutto ciò che è anomalo, bizzarro o mostruoso, è a sua volta legato ad un celebre film in bianco e nero del 1932: “Freaks” di Tod Browning. La pellicola, un vero e proprio cult maledetto, fu interpretata da vere persone con disabilità, di cui il regista mise in risalto anche l’umanità. La Arbus, che aveva visto il film molte volte, trovò in quell’immaginario la risposta alla sua ricerca artistica. Per lei fotografare una persona, freak o non freak, voleva dire svelarla e conoscerla nel profondo; è infatti risaputo che lei incontrasse molte volte i suoi soggetti prima di fotografarli, e che stabilisse con loro rapporti di amicizia. Da questo suo approccio alla fotografia è stato sviluppato anche lo script del film: il regista voleva raccontare di come la Arbus stabilisse un rapporto con un soggetto da ritrarre. Così nacque il personaggio fittizio di Lionel, poi evoluto in vera e propria nemesi dell’artista.

Andare più a largo

Mano a mano che il rapporto con Lionel si consolida (e si sfalda quello con il marito, che non riesce quasi a riconoscere la consorte), è però evidente che la salute di lui sta peggiorando. Lo si vede sempre più spesso chiamare il medico e ad aiutarsi con un respiratore artificiale. Quando Lionel capisce che il suo tempo si sta esaurendo, dice a Diane:”Voglio poter andare più al largo. E voglio che tu sia con me.” Dopo di che, le chiede di rasarlo interamente, dalla testa ai piedi. Ecco che l’elemento fiabesco ritorna: liberato dalla pelliccia della Bestia, rimane solo un Lionel umano, che può congiungersi con la Bella. In una stanza dipinta di un blu intenso, il colore della profondità e dell’inconscio, cade ogni differenza tra i due, i loro corpi bianchi possono incontrarsi e fondersi. Infine si recano al mare; dopo tante location in interno o urbane, l’inquadratura sembra aprirsi e respirare. E’ un arrivederci, non un addio: il mare li investe ed inghiotte, come in un battesimo. Dall’acqua uscirà solo Diane, ormai sola, ma pronta a percorrere il suo cammino e a seguire la sua vocazione.

Diane

Diane Nemerov (14 marzo 1923-26 luglio 1971) nacque negli Stati Uniti da una ricca famiglia ebrea di origine polacca, che aveva fatto fortuna grazie al negozio di pellicce “Russeks.” In seguito al matrimonio con Allan Arbus (1941), i due aprirono un piccolo studio fotografico, con cui realizzavano principalmente servizi per riviste di moda. Spronata dal marito a crearsi un progetto fotografico suo, la Arbus frequentò diversi corsi di fotografia, durante i quali apprese la tecnica e capì che tipo di immagini voleva creare: capì che voleva fotografare ciò che era considerato sgradevole, sordido. Dagli anni ’60 si dedicò quindi a fotografare gli artisti del circo, ma anche travestiti, nani o giganti. Frequentava spesso il museo dei mostri Hubert, ed in seguito fu ammessa a fare foto in un campo di nudisti. Questo tipo di soggetti le fece incontrare molte difficoltà sia per farsi commissionare lavori, sia per esporre; è risaputo che alcuni visitatori arrivarono a sputare su alcune sue foto esposte al Moma di New York, nel ’65. La sua produzione artistica fu compresa tra il 1960 ed il 1971, anno della sua morte. Pur non essendo annoverata tra i maestri della fotografia, il lavoro della Arbus è stato comunque seminale per molti altri artisti. L’omaggio più celebre è senza dubbio quello di Stanley Kubrik, che ha ripreso in “Shining” il celebre ritratto delle gemelle.

Steven Shainberg, regista di “Fur,” dice di lei:”C’è un’incredibile intimità in quelle immagini. Non solo quello che il soggetto delle foto ha rivelato a lei, ma anche quello che lei ha rivelato al soggetto riflesso nella macchina fotografica. Quelle immagini, molte di esse, riguardano la relazione profonda con la persona che percepiamo nella stanza; lei, dietro l’obiettivo. Questo è un primo aspetto. Il secondo aspetto è che mettono in discussione il nostro terrore, pregiudizio, impressionabilità e rifiuto. E quelle immagini ci costringono ad accettare che ci sono cose che fatichiamo ad ammettere con noi stessi.”

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