Diego Maradona, di Asif Kapadia (2019)

di Girolamo Di Noto

Cosa rende la vita di una persona degna di essere raccontata? Qualsiasi vita, certo, per quanto possa essere ordinaria e normale, ha un suo senso, un suo significato, ma una vita spericolata, vissuta al massimo, nella sua eccezionalità come quella di Maradona non può passare inosservata e per questo è stata fonte di ispirazione di diversi registi, oggetto di analisi di scrittori, cantanti dell’ultimo secolo. Maradona è stato tante vite: il più grande calciatore di tutti i tempi, capace di portare alla vittoria squadre sgangherate senza speranza, il ragazzo povero cresciuto in una baraccopoli, l’uomo fragile e sfrontato che non sapeva dire di no, che non ha mai nascosto nulla delle sue debolezze.

Nel documentario Diego Maradona del regista Asif Kapadia, c’è posto per tanti frammenti di vita del calciatore argentino. I riflettori sono puntati soprattutto sui 7 anni vissuti a Napoli, dal 5 luglio 1984, giorno della presentazione al San Paolo davanti a 80.000 spettatori, al 17 marzo 1991, quando al controllo antidoping dopo la partita Napoli-Bari venne trovato positivo alla cocaina. Splendori e miserie di una vita irripetibile sono raccontati dal regista attraverso immagini di repertorio, interviste esclusive, alti e bassi della carriera del “pibe de oro”, diviso dalla generosità e l’impegno verso i più sfortunati alla tentazione del lusso più sfrenato, alla caduta nella droga.

Asif Kapadia trascina il racconto dentro la complessità del personaggio ed è abile nel descrivere, attraverso immagini commoventi, il genio strabiliante che sapeva illuminare i campi di calcio e l’uomo sregolato, eccessivo, guascone che non ha saputo portare fino in fondo una genialità straripante. Fra i documentaristi più apprezzati, Kapadia si è fatto conoscere nel panorama mondiale con le biografie su Senna, leggendario pilota di Formula uno, ed Amy, premiato con l’Oscar, sulla sfortunata vita della cantante Amy Winehouse. Nel ricostruire le biografie di questi personaggi, il regista si è sempre soffermato sui contrasti evidenti nelle loro vite: se in Senna il contrasto era fra il pilota brasiliano e Alain Prost e in Amy riguarda i suoi rapporti burrascosi con famiglia e stampa, in Diego Maradona si sviluppa una tensione interna allo stesso uomo.

Maradona conteneva moltitudini: c’era un Diego timido e insicuro e uno geniale e sfrontato, privo apparentemente di insicurezze. La migliore definizione del calciatore la dette lo scrittore argentino Osvaldo Soriano: ” L’uomo che pensa coi piedi”. Maradona è stato il più umano degli dei, eroe invincibile nonostante le mille debolezze, “sgorbio divino”, come lo definì Gianni Brera, magico, perverso, “un jongleur di puri calli che fiammeggiano feroce poesia e stupore “.

Il campione argentino è visto nel documentario attraverso le immagini delle sue partite, i momenti indimenticabili come la punizione incredibile alla Juventus, preceduta dalla sequenza dedicata all’infanzia poverissima, lo slalom magico contro l’Inghilterra, la sfrontatezza sincera nel giustificare il gol di mano nel mondiale 86 contro gli inglesi quando coniò l’espressione divenuta poi celebre Mano de Dios.

Senza dimenticare il rapporto unico con Napoli, dettato dall’identica voglia di riscatto; ciò che il regista mette in risalto è ancora una volta il contrasto di un rapporto così bello e complicato. Il giocatore più apprezzato e ammirato al mondo che gioca nella squadra più maltrattata d’Italia, Diego prigioniero nella città che lo adora: non può andare al cinema o scendere in strada, addirittura un’infermiera di un ospedale dopo aver eseguito un prelievo, ha conservato il sangue in un’ampolla e lo ha deposto in una chiesa.

In nessun altro luogo Diego sarebbe potuto diventare Maradona senza il palcoscenico partenopeo. C’è un aneddoto straordinario e divertente che mostra meglio di tutti cosa rappresentava per i napoletani Maradona, la percezione mitica della sua figura. Due ragazzini giocano a pallone per i vicoli della città. Ad un certo punto si fermano a guardare due enormi murales, uno a fianco dell’altro. Uno dice all’ altro:” Chill’è Maradona, ma l’altro… chi è?”. L’amico guarda l’immagine di Che Guevara e risponde all’amico: ” È ‘o tatuaggio ‘e Maradona “.

Un’altra scena capace di condensare l’essenza dell’uomo e dell’artista che è stato Maradona è in Youth di Sorrentino. Il Maradona di Sorrentino è grosso e in evidente sovrappeso, è lento, è ormai nella fase decadente, ha occhiali neri, una catena d’oro al collo. Ma è anche il Maradona dal piede d’oro capace di colpire la pallina da tennis e a palleggiare fino a quando il fiato corto gli impedisce di andare avanti.

È facile cadere in idolatria o all’opposto in isterismi demolitori quando si ha a che fare con uno dei più amati e controversi campioni di tutti i tempi. Maradona ha raccolto in sé il sacro e il profano, è stato adorato e odiato, scaltro e ingenuo, sintesi delle debolezze umane e imprendibile folletto. Incantato ad ammirare un gol in rovesciata, un pallonetto, un lancio millimetrico, il tifoso-spettatore non può non vedere in lui il calcio come metafora della quotidiana riconquista dell’infanzia, non può non cancellare – anche solo per un attimo – il grigio delle miserie e dei vizi che disturbano la vita quotidiana. Quella di Maradona è stata una vita irripetibile, non sempre lineare, dal percorso a volte tortuoso, con esplosioni di gioia e dribbling riusciti e pagine scure. Inevitabili, queste ultime. Del resto, senza le pagine scure anche Caravaggio sarebbe rimasto un Merisi qualsiasi.

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