Pierrot le Fou (Il bandito delle 11), di Jean-Luc Godard (1965)

di Laura Pozzi

Jean-Luc le Fou o Pierrot Godard? Su questo enigmatico, quanto amletico interrogativo (lasciando da parte l’infelice e fuorviante “italianizzato” bandito delle 11) si può innestare una stimolante riflessione sull’opera più esplosiva, sfaccettata e significativa del grande cineasta francese. Pierrot le Fou, nasce agli albori del maggio sessantottino, ma il suo nucleo già pregno di una forte componente politica è pronto a disgregarsi alla prima esplosione (e nel film ce ne sono tante), sprigionando nell’aria frammenti di cinema puro. Il contesto socio politico nel quale Godard (de)costruisce la sua opera è un contesto lineare, prospero, prestigioso. La Francia seppur adombrata dallo spettro della guerra ( il binomio Algeria/Vietnam) è una paese in piena espansione destinato a diventare una potenza economica fra le più tecnologicamente avanzate. Ma Godard forte del suo diploma da etnologo, dietro quei misteriosi occhiali scuri che ne tracciano un’impenetrabile e misterioso identikit, scruta gesti e sguardi rifuggendo qualsiasi contropartita volta ad una parziale rassicurazione. Girato nell’estate del 1965 e presentato alla mostra del cinema di Venezia dello stesso anno, il film definito a più riprese film – caleidoscopio si erge su audaci e patriottiche variazioni cromatiche sature di blu, bianco e rosso, sulla frammentazione dell’immagine su una scomposizione del linguaggio volta a distruggere, depistare,  provocare, infastidire o al contrario estasiare.

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Si perché Pierrot le Fou è un film che non lascia indifferenti e se ne sbatte altamente di compiacere, semmai è interessato e cinicamente divertito a destabilizzare, irritare e per ultimo trovare una propria sbilenca identità al di fuori dello schermo. Come sempre in Godard la trama assume un aspetto secondario, il caos regna sovrano e anche il cinefilo più incallito deve arrendersi alle sue spericolate acrobazie artistiche fatte di ripetizioni, sguardi in macchina, voci fuori campo, capitoli a caso, sdoppiamenti e ritorni su generi apparentemente fuori contesto. Tuttavia sarebbe impreciso tacciare il film di puro astrattismo o considerarlo semplicemente un autocelebrativo e compiaciuto gioco formale fine a sé stesso, perché la non-storia che Godard ci consegna si lega indissolubilmente al destino di altre due opere fondamentali: Fino all’ultimo respiro e Bande à part.

Ferdinand Griffon (Jean Paul Belmondo), annoiato professore di spagnolo conduce una tranquilla e monotona vita borghese in compagnia di moglie e figli. Insofferente e sprezzante a quella gabbia dorata, popolata da sedicenti personaggi assuefatti a slogan pubblicitari, una sera incontra l’ambigua e torbida Marianne (Anna Karina) un ex fiamma amata cinque anni prima e ora affiliata ad una banda di gangster. Insieme decidono di fuggire verso sud, lasciandosi trasportare da un istinto animalesco che li condurrà con un cadavere sulla coscienza fino in Provenza. Un paesaggio limpido, ridente, coloratissimo in netta contrapposizione con l’animo oscuro di due vittime del disordine contemporaneo, due sofisticati Bonnie e Clyde, due moderni Adamo ed Eva determinati più che mai a giocare e sbeffeggiare la vita fino all’ultimo respiro. Isolati dal mondo, immersi nel tepore culturale di libri e giornali a fumetti Ferdinand inizia a scrivere un diario fino a quando la sacralità di quell’eden terreno verrà violata dagli ex compagni di Marianne. L’inevitabile separazione li vedrà nuovamente complici qualche tempo dopo a Tolone. Ancora una volta la fatale Marianne riuscirà a coinvolgere il suo Pierrot in loschi traffici che la porteranno alla morte, lasciando la scena ad un’esplosiva e colorata marionetta senza fili, caduta ancora una volta nella trappola mortale della più celebrata mantide religiosa godardiana.

Il film si apre con una lunga citazione su Velasquez definito “pittore del tramonto, dell’immensità e del silenzio, sia che dipinga all’aperto,sia in una stanza chiusa, sia  che la guerra o la caccia ulinino al suo fianco. Artista della tela che come tutti gli spagnoli vive l’imbrunire” presa da un libro di storia dell’arte che Ferdinand,  adagiato in una vasca da bagno e avvolto in una nuvola di fumo declama alla figlioletta. La pittura rappresenta una delle innumerevoli tracce all’interno della storia, un supporto imprescindibile a tutta una serie di riferimenti espliciti. Il cognome di Marianne è Renoir (ma qui il riferimento potrebbe estendersi a Jean, punto di riferimento dei padri fondatori della Nouvelle Vague) nella sua stanza (così come in quella dell’antenata Patricia/Jean Seberg) capeggiano riproduzioni di Picasso, Modigliani,Pierre-Auguste Renoir volte a scandire una narrazione priva di scene madri. L’immagine diviene per Godard la tela su cui spruzzare e pennellare le proprie riflessioni sul linguaggio cinematografico per interrogarsi sulla sua natura fuggevole. Che cos’è il cinema? In un articolo dei Cahiers datato 1958, il regista rispondeva allo stimolante quesito con un nome e cognome: Nicholas Ray. Sette anni dopo conferma la sua certezza, contrapponendo Johnny Guitar al mondo di idioti vissuto da Ferdinand, per poi scortarlo a quel party iniziale dove un Samuel Fuller in carne ed ossa risponde: “Il cinema è come una battaglia…amore…odio…azione…violenza…morte…in una parola: emozione.” Ma Godard dissemina tutta la storia con frammenti di cinema, che accarezzano il cinema veritè, (tre individui si raccontano agli spettatori stracciando qualsiasi ipotesi di finzione) ed evocano le nostalgiche messe in scena di Méliès. Così allo stesso modo lo schermo diviene cornice ideale dove manifestare la più totale indifferenza per una realtà incomprensibile che al contrario lo solletica e disorienta.

La riflessione segue allora una traiettoria alternativa, quella della scrittura, della letteratura dove Pierrot/Ferdinand oltre a redigere il suo diario personale può esprimersi con le parole di Céline, Conrad, Faulkner, Garcia Lorca, Jack London. Ma la parola scritta oltre ad inserirsi prepotentemente nella narrazione al pari di un’inserzione pubblicitaria, diviene anche un modo per alimentare una sottile, ma pungente polemica al linguaggio artefatto e innaturale dell’individuo divenuto figlio illegittimo del consumismo più sfrenato, sempre più confuso nella massa. Per questo la surreale parabola esistenziale di Ferdinand e Marianne assume i toni di un disperato e rabbioso grido di libertà da parte di un autore libero di esplorare e penetrare non nella vita dei personaggi, ma nella vita stessa. Della vita Godard sceglie tutto quello che vede e naturalmente vede solo quello che vuole. A lui interessa sopratutto far vedere ciò che gli passa per la testa, quel disordine dirompente apparentemente privo di senso. Per lui non è importante quel che si sa o quel che si è, ma quel che non si sa e quel che non si è. Non per rinnegarsi, ma per arricchirsi l’individuo cerca di essere quel che non è. Tuttavia tra continui giochi di parole, salti temporali e contrapposizioni di immagini l’unica cosa certa sono i 90 anni, oggi, di un fuorilegge, un “bandito” della settima arte forse non simpaticissimo, ma senza il quale la storia del cinema non sarebbe quella che è.

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