di Marzia Procopio
“Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è”.
Jorge Luis Borges
John May è un tranquillo, schivo e solitario uomo di 44 anni che svolge per il Comune di Londra un lavoro singolare: si occupa di rintracciare parenti e amici delle persone morte in solitudine, che non hanno a reclamarli nessuno se non animali domestici, che trattano come quei figli da cui la vita li ha allontanati; uomini e donne di cui si conoscono solo il volto e il nome e che questo piccolo impiegato comunale dagli occhi celeste pallido, gentili come il suo sorriso, si incarica di accompagnare per l’ultimo viaggio. Quando la sorte benevola gli concede di trovare pezzi della loro vita – fotografie, biglietti, cartoline – John May ricompone il puzzle e con generosità ne organizza, cercando di indovinare cosa piacerebbe al defunto, il rito funebre: quale la confessione religiosa, quale la provenienza geografica, quale la storia personale, tale la musica o il discorso di commiato da far pronunciare al sacerdote, come nella prima scena in cui lo vediamo – il completo scuro, l’inseparabile valigetta – in una chiesa deserta.

Svolge il suo lavoro con grande meticolosità nel suo piccolo ufficio dalle pareti grigie come i suoi giorni tutti uguali, dove consuma pasti frugali – una scatola di tonno, una fetta di pane tostato, una mela la cui buccia taglia a ricciolo – sperando di trovare qualcuno che abbia a cuore il funerale, l’estremo saluto; perché John May sa che il rito è il mezzo per cui si compie l’ordine in divenire, sa che senza un funerale dignitoso i morti non trovano pace, e infatti, quando il suo razionale, insensibile capo gli fa notare che in fondo il funerale si fa per i vivi perché ai morti non importa più nulla, May gli risponde di non aver mai preso in considerazione la questione sotto quel punto di vista, e lo fa col sorriso imperturbabile, mite e azzurro, dei suoi occhi gentili. John May sa che la vita e la morte sono le vertigini che racchiudono il breve spazio della nostra permanenza sulla terra, i due momenti di solitudine estrema in cui l’essere umano è nudo davanti al mistero della vita: un sentimento che lui stesso conosce perché la sera, quando torna a casa, non c’è nessuno ad aspettarlo. Anche lui – si intuisce non per scelta – è un uomo solo, che forse anche per questo dedica la sua incolore, monotona esistenza a ricomporre con paziente dolcezza il puzzle della vita degli altri. Ha un album in cui conserva le foto, una lettera, un ricordo dei ‘suoi’ defunti; ogni tanto lo guarda, sistema, stacca una foto per metterne un’altra, prendendosi cura di loro in questo libro della memoria, microcosmo di sconosciuti abbandonati come lui a cui dare l’ultimo rifugio, galleria di ‘famiglia’ in cui ogni volto è legato agli altri dal comune destino di solitudine.

Un giorno il suo giovane, rampante capo, uno di quei dirigenti che escono da una Business School of Administration, gli notifica il suo licenziamento, imposto dalla crisi. Gli dà qualche giorno per chiudere l’ultimo caso, e John inizia il suo viaggio alla ricerca di amici o parenti di Billie Stoke: un viaggio che si rivelerà nella sua stessa esistenza. Pazientemente ricuce la storia di una vita – la guerra, una relazione finita male, una figlia grande persa di vista, l’alcool – gli organizza un funerale cedendo all’uomo persino il loculo che aveva comperato, nella sua meticolosità, per sé: è in alto – spiega alla figlia di Billie che aveva convinto a dare al padre l’estremo saluto – ha davanti un panorama aperto che anche nei giorni di cattivo tempo non sembra di stare chiusi. Saluta la giovane donna dandole appuntamento al giorno delle esequie per un tè subito dopo la cerimonia, le sorride con gli occhi divenuti – sul viso straordinariamente mobile di Eddie Marsan – di un azzurro un po’ meno pallido, aspetta che si chiuda per lui un diverso futuro.
Con Still life, il suo secondo film, il produttore e sceneggiatore Uberto Pasolini racconta una storia piccola e preziosa che muove dagli opposti e di opposti si nutre: una storia piccola e nello stesso tempo enorme (come la vita del suo protagonista), che muove dalla morte per parlare della vita. “Tra il primo tempo e il testamento”, tra gli estremi che si toccano, il regista incastona l’esistenza di un invisibile tra gli invisibili, un’anima pura che nel momento tremendo del passaggio, testimone silenzioso e gentile della fine, ridà dignità e senso alle vite di altri a lui sconosciuti, salvandole da un commiato anonimo e illacrimato. Lo fa girando un film grigio e bianco, in cui il cromatismo di ogni inquadratura riflette lo stato d’animo del protagonista, facendosi più saturo e caldo via via che John, attraversando la vita di Billie, si trasforma emotivamente (ri)trovando dentro di sé la speranza; un film in cui il regista, con straordinarie sensibilità e misura, intreccia insieme la vita e la morte, orchestrandole in una sinfonia di immagini rarefatte che si fanno però più piene man mano che ricompaiono i vivi.
Billie Stroke – divenuto padre, amante, soldato, amico grazie all’opera precisa di John May – esce dalla condanna dell’oblio e diventa di nuovo una persona: da ricordare, da perdonare per gli errori del passato, da rimpiangere da parte delle persone che un tempo lo amarono (“non ho più amato nessuno così”, dice a May la donna con cui Stroke aveva avuto una relazione anni prima). Sono due destini che si incrociano: tanto Billie era impulsivo, auto-distruttivo, estroflesso, tanto John è pacato, calmo, introspettivo; il loro incontro porta luce nelle esistenze di entrambi gli uomini, porta alla luce la loro natura autentica e sincera: così, nell’incontro con i vivi, con la promessa di una felicità possibile, ecco che sul volto timido di John balugina la traccia madreperlacea di un palpito del cuore, si increspa un sorriso; sulla tela grigia del volto di Eddie Marsan, che qui offre una prova d’attore commovente, passano piano piano i colori di una vita fatta di poesia e fragilità. E quando la tragica Moira si porta via quella fugace ombra di felicità comparsa in controluce tra le pieghe dell’esistenza dimessa di questo piccolo uomo gentile, Still Life si chiude in un epilogo lirico che chiarisce il senso stesso del vivere: arrivano in visita le ombre amiche dei Mani, l’immaginifico diventa celebrazione commossa, la morte svela l’essenza e il destino di John May.

Premiato con diversi riconoscimenti fra cui nel 2013 Premio Orizzonti per la regia a Venezia e nel 2014 il Globo d’oro, a Stefano Falivene, per la Migliore fotografia, Still life è un film denso, profondo, paradossalmente gioioso perché rivela il fluido rovesciarsi della morte in vita e viceversa illuminando di una luce calda anche un’esistenza apparentemente piatta.
Un film imperdibile, su RaiPlay.it
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