di Bruno Ciccaglione

Mentre impassibile guarda in televisione lo spettacolo un po’ mostruoso di pratiche sadomaso particolarmente estreme, l’Uomo senza nome protagonista di Buone notizie si rivolge alla moglie: “Fedora, tutti ammazzano e noi no. Tutti rubano e noi no. Tutti fottono e noi no. Tutti si drogano e noi no. Perché noi no, Fedora?”. Con il consueto fastidio verso questo marito che non smette di tormentarla pur nello squallore ormai accertato dei loro rapporti, Fedora risponde: “Perché noi siamo anormali!”. È solo una delle molte scene emblematiche del film, capaci di sintetizzare in una combinazione unica di immagini che sembrano quadri di Magritte, dialogo sempre sferzante, interpretazione grottesca degli attori, ambientazione estraniante, tutta l’angoscia che pervade l’ultimo lavoro di Elio Petri.

Elio Petri è stato per tutta la vita un non allineato, che si è progressivamente distaccato dal circuito dei principali produttori italiani, poi da quello della ortodossia del mondo culturale legato al PCI (fu tra i primi intellettuali a esprimere una netta condanna dell’URSS per i fatti di Ungheria nel 1956) e poi, nel periodo successivo al grande successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (che oltre a fare incassi straordinari vinse l’Oscar nel 1971), anche dalla critica. La critica giovanile sedicente “godardiana”, come ricorda Marco Giusti in una intervista (ben prima di finire a fare Stracult)*, lo considerava il “nemico numero uno”, proprio per la efficacia spettacolare ed il successo commerciale del suo cinema e per questo lo riteneva un ostacolo al rinnovamento del cinema italiano. La critica ufficiale progressista, egemonizzata dal PCI, d’altra parte, mal sopportò la dura critica da sinistra alla Fiom ed al sindacato de La classe operaia va in paradiso e trovò imbarazzante e politicamente inopportuno, mentre Berlinguer proponeva il compromesso storico con la DC, un film come Todo Modo (tratto dal romanzo di un altro grande non allineato, Leonardo Sciascia), che della DC denuncia il sistema di potere corrotto, clericale e fascistoide.

È un uomo solo, l’Elio Petri che lavora a Buone Notizie e forse è anche da questa solitudine che nasce un film così intimo e cupo, capace in qualche modo di prefigurare lo sfrenato vuoto di senso che si sta per abbattere sul mondo con gli anni ’80. Se fino ad allora Petri aveva lavorato con grandi sceneggiatori (Tonino Guerra, Age e Scarpelli, Ugo Pirro), qui scrive da solo soggetto e sceneggiatura, firma la regia ed è anche il produttore, assieme a Giancarlo Giannini (l’attore protagonista, che al culmine della sua popolarità riesce a convincere la Medusa a tirar fuori i soldi per realizzare il film forse più insolito della sua carriera).

Il protagonista della storia è, non a caso, l’unico personaggio di cui non conosciamo il nome. Si tratta di un uomo completamente in crisi (il film si apre con un black out). C’è innanzitutto la crisi coniugale di una coppia, che continua stancamente a stare insieme. La moglie Fedora (Angela Molina), d’altra parte, diversamente da lui, alla fine del film troverà forse un senso alla propria vita nell’attesa di un figlio non suo. C’è poi la crisi di valori: in un mondo in cui “uccidere, rubare e fottere” è il modo normale di vivere, l’Uomo senza nome vorrebbe tornare indietro nel tempo, ad uno “status quo, anzi, status quo, ante!”. C’è la crisi della propria identità maschile e infatti egli cerca disperatamente di farsi spiegare dalle donne che incontra, i motivi del proprio scarso fascino (memorabili le varie scene con una sua sottoposta, l’impiegata Tignetti, interpretata da una strabiliante Ombretta Colli, cui addirittura mostra il proprio membro per chiedere se è dalle sue dimensioni che deriva il proprio insuccesso con le donne).

C’è infine la sua crisi esistenziale, che si manifesta in un’angosciante paura di morire. Quando i sindacalisti cercano di coinvolgerlo nella battaglia per il riconoscimento degli scatti di anzianità la sua risposta è spiazzante: “Il problema dell’anzianità è un problema tristissimo. Perché parlarne? È meglio non pensarci! E poi, che cosa ci possiamo fare, insomma? È una malattia inguaribile l’anzianità. La morte…Tutti invecchiamo”.

Grandissima è l’abilità con cui Petri riesce a raccontare questa crisi dalle diverse sfaccettature, attraverso una pungente ironia, il gusto per il paradosso, l’interpretazione sovraccarica degli attori, l’acuta intelligenza delle provocazioni che mette in scena, uno stile registico più asciutto e più intimo che in altri film, ma altrettanto efficace. Vani e ridicoli sono i tentativi del nostro Uomo senza nome di dare sfogo alle proprie ossessioni, la prima delle quali è innanzitutto quella del sesso, nutrita dalla illusione di rapporti liberi e senza ipocrisie, o dall’agognata ricerca di un rapporto armonico con la natura, come il poter godere di un tramonto.

La società che lo circonda è una società apparentemente libera, eppure opprimente: una Roma surreale, tra sacchi di spazzatura e cartacce ovunque e con l’ininterrotto sottofondo televisivo di attentati terroristici, pandemie, catastrofi naturali e disgrazie varie (una rappresentazione che oggi definiremmo “distopica”). In questo contesto, l’Uomo senza nome viene contattato da un amico di gioventù, Gualtiero (Paolo Bonacelli), che gli chiede aiuto perché è terrorizzato dall’idea di venire ucciso, ma non sa dire da chi, né perché. Il nostro Uomo si lascia convincere dalla seducente moglie di Gualtiero, Ada (Aurore Clément), che il suo amico sia pazzo e la aiuta a convincerlo a ricoverarsi.

I pochi momenti di tenerezza del film, si devono proprio al personaggio di Gualtiero (che si rivelerà poi meno trasparente e “buono” di quel che sembra). Gualtiero è un altro tipo di maschio, rispetto al personaggio di Giannini. Se l’Uomo senza nome si agita e si sforza confusamente di capire un mondo in cui si sente inadeguato, a cui egli reagisce approfittando del suo status sociale o con la trivialità del linguaggio che usa, Gualtiero accetta la propria inadeguatezza quasi passivamente. Egli sembra reagire alle trasformazioni della società con rassegnazione e accetta di sottomettersi ai capricci della moglie accontentandosi di essere amato da lei “come il gatto di casa”.

Una delle scene più belle e malinconiche del film è proprio la scena in cui, prima di recarsi nella clinica psichiatrica dove Gualtiero sta per ricoverarsi, i due uomini ballano insieme un Walzer. Come spiega traducendo un po’ liberamente Gualtiero, la parola Walzer “vuol dire ballare strisciando”. Ci si può illudere di ballare e invece si sta strisciando, come vermi. Una scena struggente (la musica, ancora una volta perfetta in un film di Petri, è di Morricone), ma in cui i due non trovano consolazione: questi maschi non sono capaci di un vero abbandono, anzi, ciascuno nasconde qualcosa di molto importante all’altro (guarda caso, qualcosa che riguarda le reciproche mogli).

Le più intime e assurde paure dei due amici si riveleranno esatte. Quando il tramonto a lungo e tanto agognato dall’Uomo senza nome alla fine arriva, sul litorale laziale, in controluce, egli è così stravolto, da non riuscire proprio a gustarselo.

Come l’ennesimo pacco bomba arrivato nel suo ufficio, rientrato al lavoro, troverà un enigmatico messaggio lasciatogli dal suo “migliore amico” prima di morire: in un gioco di buste chiuse e bigliettini funebri, le ultime volontà del suo amico ormai morto si esprimono in un messaggio incomprensibile e anziché offrire una chiave di lettura di quanto avvenuto, sembrano solo confermare la follia di cui Gualtiero era vittima. Nessuna spiegazione, nessuna risposta ai dubbi ed alle paure sul senso della vita e della morte. È questo l’ultimo amaro sguardo sul mondo del cinema di Elio Petri, che morirà per un male incurabile tre anni dopo Buone notizie: non sappiamo più vivere e abbiamo paura di morire.

Il film è disponibile online, purtroppo in una versione di qualità non eccelsa o in un bel Dvd del 2017
* Elio Petri… Appunti su un autore, di Federico Bacci, Nicola Guarneri e Stefano Leone (2005)