di Roberta Lamonica

Vite sotto i riflettori: vita pubblica e vita privata.
Lo scandalo che ha visto coinvolti Harvey Weinstein e la Miramax, in seguito alle denunce da parte dei movimenti #MeToo e #TimesUp, ha aperto un vero e proprio vaso di Pandora a Hollywood, con rivelazioni scioccanti sulla condotta privata di celebrità fino a poco prima considerate dai fans quasi come divinità intoccabili. La copiosità e la severità delle notizie sulle molestie perpetrate da Kevin Spacey o Dustin Hoffman – per citarne due – ai danni di giovani attori e attrici, è stata di tale portata da generare nell’ammiratore/spettatore la sensazione di essere quasi complice e colpevole, anche solo per averne apprezzato il lavoro. Per quanto riguarda Hoffmann, le accuse di molestie sono giunte da parte di Anna Graham Hunter e Kathryn Rossetter, per episodi riferibili a quando le due giovani lavoravano a Broadway sul set di Morte di un commesso viaggiatore: Hoffman non ha mai replicato, ma la macchia su una carriera straordinaria per alcuni resta.

Per quanto riguarda Spacey, invece, l’attore Anthony Rapp denunciò di aver subito molestie dall’attore premio Oscar, quando lui aveva solo 14 anni ed era considerato un enfant prodige di Hollywood. Ammissione di colpa di Spacey e immediate le conseguenze sul fronte professionale: i produttori esecutivi di Netflix hanno preso le distanze da lui e attuato una damnatio memoriae di Kevin Spacey, cancellandolo dalla fortunata serie tv House Of Cards e subito dopo Ridley Scott lo ha sostituito con Christopher Plummer per il ruolo da protagonista nel suo film Tutti i soldi del mondo, rigirando tutte le scene in cui Spacey aveva già recitato. Lunga è la lista delle celebrità travolte dallo scandalo Weinstein e che oltre i succitati Hoffman e Spacey vede coinvolti personaggi apparentemente insospettabili come Bill Cosby, Casey e Ben Affleck. Quasi come naturale conseguenza sono tornate a galla le tormentate vicende personali di Woody Allen e Roman Polanski: l’uno non si è mai davvero affrancato dal rumore causato dal suo matrimonio con la figlia adottiva; l’altro, costretto a lasciare gli States nel 1973 a causa di un’accusa (con condanna) di molestie su una tredicenne, ha ricevuto nel tempo accuse da almeno altre due donne.

Anche adesso che sembra essersi placato il clamore dello scandalo Weinstein fermo è l’atteggiamento di chiaro rifiuto e la presa di distanza che lo showbiz riserva ad artisti e affini, se scoperti in atteggiamenti eticamente reprensibili o peggio, nella loro vita privata. Proprio in questi giorni la bufera mediatica si è abbattuta sulla rockstar Marilyn Manson, talento musicale controverso e personaggio dai tratti estetici provocatori, accusato dall’attrice Evan Rachel Woods e altre quattro donne di abusi sessuali a cui hanno fatto seguito le dichiarazioni di alcune fan dell’artista che lo hanno accusato di molestie e abuso di potere, in un incontro avvenuto dopo un concerto tenuto a Glasgow dalla rockstar. Manson ha negato le accuse ma le reazioni sono state fulminee: Manson è stato scaricato dalla sua etichetta discografica Loma Vista Recordings e rimosso dagli episodi delle serie televisive American Gods 3 (in cui interpretava il cantante di una band death metal) e Creepshow.

A non più tardi di un paio di mesi fa risale l’episodio relativo ai messaggi choc inviati da Armie Hammer – attore giunto al successo anche grazie a Call me by your name, del nostro Luca Guadagnino – a una fan, in cui dichiarava esplicitamente di avere gusti sessuali estremi e pulsioni cannibali. La immediata conseguenza dello scandalo derivata dalla diffusione di questo scambio avvenuto in un contesto intimo e privato è stata l’immediata rinuncia da parte dell’attore a Shotgun Wedding, film che era in procinto di girare come protagonista al fianco di Jennifer Lopez.

Questi ultimi episodi riaprono una discussione ormai annosa sul rapporto decisamente complesso tra la sfera pubblica e quella privata degli artisti, oggi soprattutto attori, per i quali il confine sembra essere decisamente labile e dai quali ci si aspetta, proprio in virtù della loro popolarità, una vita comunque esemplare. Già nel 2011, lo scandalo delle intercettazioni telefoniche da parte della rivista News from the World (proprietà del magnate dell’editoria Rupert Murdoch) vide coinvolti, tra gli altri, membri della famiglia reale inglese, Sienna Miller e Hugh Grant (tornato recentemente al successo grazie alla fortunata serie tv prodotta da HBO, The undoing, con Nicole Kidman). Il dibattito pubblico sulla violazione della privacy dei vip si fece acceso in Inghilterra; Jeremy King, editore di Media Week e Max Clifford, PR di molte celebrities, intervistati in merito allo scandalo, concordarono sul fatto che nonostante le celebrità vivano nell’occhio del ciclone, non dovrebbero essere considerate ‘carne da macello’, da dare in pasto all’opinione pubblica sempre e comunque; distinguevano, inoltre, tra quelle ‘celebrità’ che tutto sommato traggono vantaggio professionale dall’avere la propria vita privata esposta pubblicamente e quelle ‘stelle di prima grandezza’, che invece proteggono la loro vita privata con grande sforzo e attenzione e anche per questo andrebbero maggiormente tutelate. Da queste valutazioni erano chiaramente esclusi comportamenti inaccettabili e lesivi nei confronti di altri esseri umani, come molestie e abusi di qualunque natura.

Eppure, sul dibattito relativo all’esposizione mediatica dei personaggi pubblici, sulla appropriatezza dei loro comportamenti, sullo scollamento tra l’immagine come percepita dal pubblico e la effettiva realtà dell’uomo o della donna dietro quell’immagine, se ne innesta uno assai più significativo sulla separazione tra arte e artista.
Arte e artista: un rapporto controverso
Walter Benjamin sosteneva che “alla base di ogni opera d’arte c’è un cumulo di barbarie”. I veri artisti, in altre parole, potrebbero da alcuni essere percepiti come cumulo di barbarie, alcuni di loro quasi ontologicamente sregolati e amorali. Di certo, quelli attuali non sono tempi facili per artisti maledetti e i loro ‘sostenitori’ e lo scontro con l’aspetto etico legato alla loro biografia è sempre aperto e infiammato. L’esposizione delle opere di Kenneth Halliwell, writer e collagista, al Tate Modern di Londra, per esempio, ha suscitato grande scalpore, fino alla richiesta di rimozione delle opere esposte. Nel 1967, Halliwell aveva picchiato a morte il suo compagno, il drammaturgo Joe Orton, nel monolocale che i due condividevano nella parte nord di Londra, prima di suicidarsi.

E ancora, le opere dello scultore minimalista Carl Andre, ancora in vita, sono spesso esposte nei musei più importanti al mondo. Sposato con l’artista Ana Mendieta, Andre è stato assolto dall’accusa di omicidio di secondo grado per la morte della moglie, avvenuta nel 1985, in circostanze sospette. Nonostante la contestata assoluzione, sono state ripetutamente organizzate – da associazioni femministe e non solo – manifestazioni per testimoniare il cordoglio e la convinzione della colpevolezza di Andre; queste lamentavano, fra l’altro, il crescente successo di Andre e l’oblio post mortem, invece, di Mendieta. Questi casi sono testimonianza della difficoltà e dell’impossibilità molto spesso, di separare la biografia dell’artista dalla sua arte. A volte, poi, è difficile negoziare, soprattutto se l’artista in questione è uno su cui l’establishment culturale ha investito e perciò non può essere ‘cassato’, in quanto merce di valore. Ana Mendieta, evidentemente, non aveva la stessa spendibilità commerciale del suo ambiguo marito.

Una istituzione che ha dovuto fare i conti con il complesso rapporto tra opera, artista e uomo è il Ditchling Museum of Art + Craft nel Sussex, in Inghilterra. Questo museo è dedicato al lavoro dello stampatore, scultore e designer esperto in lettering, Eric Gill, autore fra l’altro del gruppo scultoreo Prospero e Ariel, che si trova sulla facciata del centro di produzione della BBC. Nella biografia dell’artista a cura di Fiona MacCarthy, pubblicata nel 1989, si fa esplicito riferimento agli abusi sessuali perpetrati ripetutamente da Gill sulle sue due figlie adolescenti, oltre che alla relazione incestuosa con sua sorella. Il museo per parecchio tempo non ha ritenuto di dover prendere provvedimenti o posizione riguardo a ciò. Ma guardare il sensuale e intimo ritratto della figlia Petra mentre si fa il bagno, o le stazioni della Croce nella Cattedrale di Westminster, scolpite da Gill, fervente cattolico, non poteva non creare una dissonanza, un disagio nel fruitore dell’opera d’arte. Ecco perché il museo ha pensato di lavorare su questo aspetto in un allestimento dal titolo Eric Gill: the body. La mostra invita a riflettere su come la conoscenza dei dettagli scabrosi della vita dell’artista influenzino, e giustamente, il modo in cui recepiamo la sua opera. Per organizzare la mostra che conta diverse scene sessuali esplicite, il museo sì è avvalso della consulenza e della collaborazione di diverse organizzazioni per la protezione delle vittime di abusi sessuali.

Eppure, nonostante questi tentativi di creare un approccio critico e dialettico alla questione del rapporto tra vita privata, genio artistico e opera d’arte, sembra chiaro che la biografia di un artista maledetto o quantomeno controverso riveste un’importanza relativa e fluttuante, spesso legata a logiche di profitto, sicuramente legata al ‘tempo’. Quanto spesso Caravaggio, definito con sprezzo “assassino e pederasta”, viene chiamato in causa per difendere il principio di separazione dell’uomo dall’artista? E se ne potrebbero portare ad esempio molti altri da ogni ambito artistico. L’uomo e la sua arte devono essere separati da un lasso temporale adeguato a ché l’ombra del ‘mostro’ sia integrata nel mito dell’artista. Gill morì nel 1940 e comunque rimane un artista celebrato con un museo a lui dedicato. La stessa ratio sembra non poter essere applicata ad artisti del mondo di celluloide come i già citati Spacey, Polanski o Allen. Perché? In quanto artisti, la cui immagine in qualche modo influenza lo spettatore, devono dare il buon esempio e quindi essere irreprensibili, altrimenti ogni scena di un loro film può rimandare all’incoerenza e alla immoralità del loro autore? Non è mai solo una questione di arte. Quando si celebra un artista spesso si inserisce la sua arte nel mito della sua esistenza. E la limpidezza della sua esistenza è imprescindibile.

Siamo affascinati dall’immagine personale ‘riprovevole’ di Caravaggio. La sua sensualità rude lo rende moderno e vivo come le figure nei suoi dipinti. E facciamo lo stesso con Oscar Wilde, che oggi esaltiamo proprio per quegli aspetti privati che ne causarono la condanna in vita. Se accettiamo che della ‘brutta gente’, possa fare della ‘bella arte’, allora ne consegue che artisti amorali possano portare il mondo a uno standard etico di gran lunga superiore a quello che hanno avuto o hanno. Ma ancora: l’arte non è estensione dell’interiorità dell’artista? Quando si inizia a separare le due anime? Nei versi di Yeats, “Fuori dalla disputa con noi stessi, creiamo poesia”.


Il nostro rapporto con l’arte non è politico ma estetico. È fluido, spinoso. Il nostro giudizio cambia continuamente e continuamente va rinegoziato; e allo stesso modo va monitorato il nostro rapporto con l’artista, se non con l’uomo dietro di lui. Negare il valore assoluto di un’opera d’arte o il genio di un artista in virtù della discutibilità della sua condotta privata è pericoloso come esaltarlo senza tener conto del loro lato oscuro. Mai chiudere un occhio su crimini non perdonabili, ma si potrebbe mantenere un atteggiamento distaccato per non privarsi del piacere di fruire di arte spesso opera di genio? Forse conoscere le ombre più scure nella vita di certi artisti potrebbe essere tassello aggiuntivo per una valutazione più profonda e consapevole dell’opera d’arte da essi prodotte. Campo minato e dibattito sempre infiammato per un tema delicato che comunque lo si affronti, non può non dividere e moltiplicare i punti di vista.
Credits to: BBC culture
Rispondi