Un serpente di giugno (A Snake of June), di Shinya Tsukamoto (2002)

di Greta Boschetto

Un serpente di giugno (A Snake of June, 六月の蛇 Rokugatsu No Hebi) è un film del 2002 diretto da Shinya Tsukamoto con Asuka Kurosawa, Yuji Kohtari e il regista stesso.

“Il serpente è quello che tutte le donne hanno in corpo. Una metafora che mi attrae da sempre. Quando penso ad una donna, la immagino con un serpente che le vive dentro.” (Shinya Tsukamoto)

“Tsuyu”, dal giapponese letteralmente “pioggia di prugne”. È a giugno ed è la stagione delle piogge: scrosciante rumore d’acqua che cade dal cielo come colonna sonora continua, acqua estiva, con il clima umido che attacca i vestiti alla pelle, quasi da farci sentire soffocare dentro noi stessi. 

Giugno, Giappone: Rinko è una giovane donna, timida e sensibile, che lavora come assistente psichiatrica telefonica, sposata con un uomo più anziano, ossessionato dalla pulizia, dall’ordine, freddo e distante, emotivamente e sessualmente. Conducono una vita agiata, lui è un ricco imprenditore, hanno una bella casa moderna, sembrano apparentemente sereni. 

Un giorno, al lavoro, Rinko salva la vita a un uomo, malato terminale (il regista stesso, che oltre a recitare e a dirigere si occupa di tutto, dalla produzione al montaggio) e lo convince a non suicidarsi nonostante la malattia. Qualcosa, in lei, risveglia la voglia in questo strano personaggio di ricambiare l’aiuto, di restituirla alla vita. 

Inizia a mandarle delle foto dove viene ritratta nei suoi momenti intimi di autoerotismo, la ricatta, lei ovviamente ne è spaventata, perché non è un gioco consensuale, ma uno shock improvviso che destabilizza e terrorizza. Rinko si ritrova a dover assecondare le richieste del suo stalker, che rimane sempre nell’ombra, senza mai avvicinarsi a lei: la segue per la città, la guida tramite un telefono, le dà indicazioni su cosa fare, dove e quando, coinvolgendo anche il marito, sempre più in preda a incubi e deliri, incapace di capire cosa sta succedendo, incapace di accettare che sua moglie inizi a trovare il piacere in queste sessioni fotografiche continue, dove il protagonista (appunto il regista stesso) usa la macchina fotografica (e anche quindi la macchina da presa) non solo come elemento voyeuristico, ma come strumento di liberazione, restituendoci la nostra immagine attraverso gli occhi di qualcuno altro. Perché sì, il cinema deve essere libertà, quella di scoprire cosa si nasconde sotto la nostra pelle, una lente di ingrandimento su ciò che spesso lasciamo taciuto. 

In questa pellicola, Tsukamoto rivela tutta la sua poetica che ritroviamo in quasi ogni suo film: il corpo prima di tutto, come protagonista principale, come in altre sue opere, da Tetsuo a Vital, la malattia del corpo (la giovane Rinko scopre, grazie al suo stalker, di avere un cancro al seno), la solitudine nelle città moderne, la meccanizzazione, il cinema come strumento. 

Lo stile frenetico e frammentato di Tsukamoto è forse meno esasperato che in altri suoi film, ma è comunque sempre destabilizzante, soprattutto nella seconda parte, dove realtà, sogno e incubo si fondono perfettamente. La magnificenza della pellicola sta anche nel suo colore, un bianco e nero virato in blu durante la post-produzione, donandole così un aspetto freddo e aristocratico, blu, come il colore che si dà all’anima durante le tristi giornate di pioggia continua che si susseguono l’una all’altra senza sosta. 

L’elemento acqua è fondamentale, un qualcosa che inizialmente crea disagio, se non si è capaci di lasciarsi andare sotto la pioggia, come nella scena chiave, dove Rinko, davanti agli occhi del marito, si perde in un orgasmo che sembra alimentarsi ad ogni scatto della macchina fotografica del suo aguzzino-liberatore, sotto gli occhi del marito che cede anche lui all’eros, vedendo la moglie come probabilmente non era mai successo prima. 

Acqua, pioggia, corpi che rinascono dopo la stagione delle piogge, come la natura stessa che ne ha bisogno per risvegliarsi dopo gli inverni gelidi e aridi. 

Come per buona parte di un certo tipo di cinema giapponese, non ci sono vie di mezzo, o si ama o si odia, o lo si sente o sembra troppo lontano per essere compreso: come per i personaggi del film, “fai quello che vuoi veramente fare!” dice lo stalker a Rinko, perché la quiete delle vie di mezzo, la serenità data dall’accettazione passiva, non danno gioia, come scopriranno anche i protagonisti alla fine del film, liberati dalle loro sovrastrutture, nemmeno rinati perché semplicemente scoprono quello che già erano, pronti finalmente ad amare di nuovo, perché il sentire e il sentirsi sono l’unico collante che può arginare le nostre crepe, in un amplesso continuo con noi stessi, con gli altri e con la vita, tanto da cancellare anche le mutilazioni della malattia.

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