L’enigma di Kaspar Hauser, di Werner Herzog (1974)

di Girolamo Di Noto

“Io sono venuto, orfano tranquillo,
ricco solo dei miei occhi quieti,
verso gli uomini delle grandi città”

Paul Verlaine

Vladimir Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura insisteva molto su un concetto: “La letteratura è invenzione. La finzione è finzione. Definire una storia una storia vera è un insulto all’arte e alla verità”. Werner Herzog, regista visionario da sempre cantore di realtà destinate a tragica estinzione, fautore di un cinema audace che ha costantemente messo da parte l’ovvio, il banale, al pari di Nabokov, è sempre stato alla ricerca di immagini non-viste, di visioni, inventando cose che sono, non “vere”, ma di una verità altra, intensificata.

Fedele al principio in base al quale l’opera d’arte è sempre la creazione di un mondo nuovo, il regista tedesco, grazie alla magia e all’incanto ipnotico delle immagini, ha dato continuamente prova di mostrare una sorta di prima visione delle cose e lo ha fatto anche quando ha tratto i suoi film da storie realmente accadute.

L’enigma di Kaspar Hauser, il cui titolo italiano non ha nulla a che vedere con il tedesco “Jeder fur sich und Gott gegen alle” che letteralmente significa “Ciascuno per sé e Dio contro tutti”, racconta la storia di Kaspar Hauser, un personaggio storico realmente esistito, un giovane inerme e incapace di parlare (Bruno S.) che nel 1824, dopo aver vissuto fino a quel momento chiuso tra le mura di una torre, segregato dal resto del mondo, viene abbandonato in una piazza di Norimberga.

Herzog non ha certo la pretesa di riportare fedelmente i fatti relativi alla vita di Kaspar. Ciò che lo interessa è evocare la storia del trovatello attraverso le atmosfere e i comportamenti dei personaggi che ruotano attorno a Kaspar, gli preme sottolineare il carattere di questo insolito personaggio che riesce a irradiare una dignità umana senza precedenti; per Herzog ciò che conta è soffermarsi sulla tragica inconciliabilità di due mondi opposti: quello logico e razionale che tutto nomina, definisce, ingabbia e quello della pura creatività che dimora in una libertà primitiva, pura, vergine, propria di chi inizia a raccontare le storie ma non sa concluderle, di chi sa fantasticare e si perde in visioni non codificate, indefinite, inafferrabili.

Kaspar non aveva alcun concetto del mondo, né della lingua né di che aspetto avessero il cielo o un albero. “Diventare cavaliere, come mio padre”, “Non so” oppure “Chissà!” erano le uniche parole che proferiva in tono lamentoso e nelle più diverse circostanze. Tutto il suo comportamento rivelava la psicologia di un bambino di due anni in un corpo di ragazzo. Nel film non sa neppure cosa sia il pericolo. C’è una scena in cui se ne sta tranquillamente seduto mentre uno spadaccino simula delle stoccate verso di lui e poi si brucia con una fiamma perché non ha mai visto il fuoco.

La sua sorprendente comparsa a Norimberga dà vita a diversi enigmi oscuri di cui si cerca invano la chiave con una serie di ipotesi. Ripete a pappagallo le solite espressioni, mostra un ribrezzo di fronte a tutte le abitudini, i bisogni che diamo per scontato della vita, guarda il mondo con genuino stupore senza avvalersi di alcun costrutto mentale: chi sarà mai quest’uomo? Un abitante di un altro pianeta miracolosamente piovuto sulla Terra oppure quella creatura di Platone che, nata e cresciuta dentro una caverna, soltanto nella maturità è salita in superficie, alla luce del sole.

Kaspar Hauser non avendo vissuto a contatto con nessuno, incapace di comportarsi civilmente, viene invano addomesticato e il rapporto con l’ambiente che lo circonda sarà sempre più caratterizzato da solitudine ed estraneità. C’è chi lo deride, chi prova ad educarlo, chi lo annovera come un impostore, chi un principe, chi lo considera un pericolo, chi ritiene possa essere un oggetto da sottoporre ad esperimenti tutt’altro che scientifici. Dopo essere stato esibito come fenomeno da baraccone, Kaspar viene adottato da un medico e compie notevoli progressi, mostrando uno spirito sensibile e incline al fantasticare. Si fa beffe dei quesiti di logica con cui viene messo alla prova, la fede, l’obiettiva osservazione dei fenomeni appaiono incomprensibili alla sua mente. Confonde come coscienti le mele, l’albero gli dimostrava che era vivo muovendo rami e foglie, e parlava quando le sue fronde stormivano al vento.

Ciò che a Herzog interessa è la storia di una persona che non era stata influenzata in alcun modo dalla società, una persona che non ha alcun tipo di condizionamento sociale e se ne va in giro confuso e stupito. Può un uomo di tal natura essere accettato da un sistema sociale conservatore, scialbo e poco incline a tollerare fantasticherie e superbe visioni? Non riuscendo a plasmare la sua anomalia, questa verrà mostrata come mostruosità e Kaspar dapprima verrà accomunato ad un “freak “, come il Merrick di Lynch, poi, quando verrà ucciso, lo scrivano mostrerà tutta la sua soddisfazione verbalizzando “l’esito felice” dell’autopsia che rivelerà la rassicurante inferiorità fisica di Kaspar, con un cervello più piccolo del normale. La pace della logica sarà così raggiunta.

Se Kaspar vive la sua passione e soccombe, Herzog al contrario, nella sua carriera cinematografica non si lascerà facilmente domare dal pensiero dominante, nel mondo complesso del cinema così pieno di compromessi non sarà pasta così facile da modellare. Fare cinema per Herzog ha da sempre significato creare immagini “non ancora viste”, di un’intensità che sfugge alla nostra percezione abituale. Anormali, ciechi, folli, nani hanno sempre popolato il ricordo dei film del regista tedesco. Herzog vuole che gli spettatori entrino in sintonia con Kaspar e guardino in modo nuovo le cose.

Una via di fuga per Kaspar è rappresentata dai sogni, dalle visioni, le uniche che possono liberarlo da un’esistenza borghese rimbecillente. Rappresentano immagini di paesaggi indefiniti, carovane che si muovono sui deserti, montagne nere che si oppongono ai salotti armoniosi e simmetrici dell’intimità borghese. Kaspar, impersonato da uno straordinario attore non professionista, Bruno S., uomo che ha vissuto anche lui un’intera esistenza trascorsa tra riformatori e istituti per malati mentali, e che troveremo in un altro bellissimo film di Herzog, La ballata di Stroszek, vuole disperatamente scuotere una realtà ferma e crudele, si fa portavoce di una fantasia visionaria senza eguali e racchiuderà il principio che Herzog porterà sempre con sé nel fare film, ovvero “chiudere gli occhi per vedere”, reinventare il mondo. Una filosofia di vita che porta ancora oggi a considerare Herzog uno dei registi più importanti e originali del cinema, meravigliosa testimonianza di indipendenza di spirito e di sguardo.

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