Macbeth, di Justin Kurzel (2015)

di Simone Lorenzati

Michael Fassbender (Macbeth): “E se dovessimo fallire?” Marion Cotillard (Lady Macbeth): “Noi non falliremo”

Esistono opere immortali, in grado di sopravvivere al trascorrere del tempo ed esserne esaltate, in qualunque momento si attinga a queste. Ed esistono poi capolavori letterari di tale portata dal riuscire anche ad ispirare gli artisti successivi, che li fanno propri e li omaggiano. Per, in definitiva, rielaborarli nella loro arte. Macbeth, tragedia scritta da William Shakespeare – tra il 1605 e il 1608 – è indubbiamente uno di questi casi. Si tratta di una delle più apprezzate e moderne opere shakespeariane pur essendo, tra queste, il dramma più breve. La trama, come noto, si muove intorno all’eterno tema dell’ambizione, rendendo il lavoro attuale in qualunque epoca, e l’oscurità e l’intensità della stessa la colorano di ulteriore profondo interesse.

Nella versione cinematografica, la storia è fedelissima a quanto scritto da Shakespeare, esattamente come accade al linguaggio utilizzato dai protagonisti. Già le prime sequenze dell’opera di Justin Kurzel sono immediatamente di impatto: slow motion notevoli nel bel mezzo di un campo di battaglia, mentre Macbeth (Michael Fassbender) affronta il capo dei ribelli, Macdonwald. E, cosa più importante, queste prime sequenze – sporche, cupe e macabre – anticipano quello che sarà poi il tenore dell’intero film. Ma soprattutto fanno capire su cosa il regista ha puntato di più. Va infatti riconosciuto a Kurzel e soci un lavoro tecnico di prim’ordine. Si pensi a questo inizio senza dimenticare, però, anche le ultime immagini del film: un rosso fuoco, per lo scontro che chiude i conti, che pare plasticamente sottolineare il contesto di una dimensione simil-infernale.

Fassbender riesce a restituirci il tormento del protagonista – il suo carattere in fondo buono e che prova a ribellarsi al seguire la profezia che lo riguarda. In ciò viene, indubbiamente, aiutato dalla magistrale prova recitativa di Marion Cotillard, alias Lady Macbeth. Trattandosi della tragedia più breve e diretta – ma in realtà semplice – può sembrare curioso che una Hollywood in crisi di idee non abbia pensato prima a ripercorrere i territori così brillantemente percorsi in precedenza da Orson Welles (1948) o da Roman Polanski (1971). E questo compito gravoso avrà motivato non poco il giovane regista australiano, che è andato dritto per la sua strada cercando di tornare alla radice più viscerale dell’opera di Shakespeare. Da rimarcare la trasformazione delle tre vecchie streghe senza nome (più Ecate, ciò ritenuto apocrifo dalla critica letteraria più fedele) in quattro personaggi femminili: una bambina, una giovane, una donna matura ed una anziana. Ossia quattro donne che rappresentano una sorta di coro, di terzo punto di vista interiore alle vicende narrate e, allegoricamente, anche il trascorrere delle stagioni della vita. Le quattro streghe sono, quindi, sia il fato sia il tempo nel suo scorrere continuo, fatto di vita e morte in un ciclo senza fine, di cui Macbeth diviene sostanzialmente uno strumento.

Linguisticamente accurato, il film smussa la violenza di alcuni momenti chiave, salvo insistere visivamente su una cupezza congenita, devastando le carni dei protagonisti, diventate esse stesse un secondo cruento campo di battaglia. Adam Arkapaw, già direttore della fotografia di True Detective e di Snowtown, esegue un lavoro profondo nel sottolineare le differenze fra i campi lunghi di una Scozia dal fascino primordiale e gli interni monumentali dei palazzi del potere, spirituale o politico. Ci si muove, come detto, tra i campi lunghi e focali aperte nelle scene in esterno, mentre primi e primissimi piani sui personaggi la fanno da padrone negli interni. Ciò crea una contrapposizione continua tra soffocamento visivo interiore e perdita del punto di vista esteriore.

Insomma le location sono quelle giuste, dalle cattedrali all’obiettivo puntato sulle meravigliose montagne scozzesi, così come risulta esserlo lo sfondo di nebbie invasive quanto ripetute. Ne esce, quindi, una pellicola con più luci che ombre e con Fassbender e Cotillard che si caricano – letteralmente – sulle loro spalle l’operazione, anche nei momenti meno convincenti della stessa.

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