di Michela Pellegrini

Il terreno su cui nasce e affonda le radici Il Casanova di Federico Fellini (1976) è un terreno impervio, difficile da percorrere, dissestato.
«A me sembra uno scrittore noioso, che ci ha parlato di un personaggio chiassoso, indisponente, vile, un cortigiano che si chiamava Casanova, un omaccione impennacchiato che puzza di sudore e di cipria, che ha l’ottusità, la prepotenza e la spocchia della caserma e della chiesa, uno che vuole sempre aver ragione […]»
Le parole espresse dallo stesso regista in un’intervista del 1975 (il film in quel momento è ancora in lavorazione) sul personaggio di Casanova (Donald Sutherland), sia storico e reale che letterario, danno l’esatta misura dell’incerto campo sul quale sorge l’opera. Da qui deriva anche la non minore difficoltà a parlarne – che tutto, molto, è stato già detto.

Uno scrittore noioso, una specie di cicisbeo, un omaccione impennacchiato e maleodorante. Questo è il ritratto inedito che Fellini fa dell’avventuriero e del più famoso seduttore del diciottesimo secolo, in evidente e totale contrasto con l’immagine fascinosa entrata tra le schiere dei personaggi popolari e infine protagonisti di una vera e propria mitologia del contemporaneo.
La tredicesima opera del regista riminese vede la luce nel 1976 destando non pochi clamori e lasciando lunghi strascichi anche negli anni a seguire. Alla sua uscita viene acclamata fino in fondo poco ma è presto rintracciata all’unanimità l’ambivalenza, l’odi et amo di Fellini nei confronti del protagonista e della sua vicenda esistenziale: l’Histoire de ma vie, l’autobiografia di Casanova, sembra essere in questo gioco di veli, di ripugnanza e attrazione il nodo in cui si coagula il reale-immaginario di una vita. Fellini e Bernardino Zapponi – già sceneggiatore per il Satyricon, I Clowns e Roma – tagliano, ricuciono, omettono e soprattutto deformano questa fonte. E la deformazione è il segno più significativo ed esaltante, è l’eccesso che non chiede di essere ridotto e addomesticato ma rilevato. Per parlare di tale opera serve forse districarsi tra questi mascheramenti, veli e difficoltà senza però scoprire tutto o tentare la filologia, piuttosto verrebbe quasi voglia di compiere un’apologia del maquillage. È certo comunque che si pone come “tavolo d’indagine” la fonte letteraria.

Se l’Histoire de ma vie in quanto opera scritta abbandona il lettore alla mobilità della carta stampata e del suo sfogliarsi, nel suo galoppo, nel ripensamento (l’immaginazione è una voce che viaggia); tali prerogative della letteratura Fellini non le restituisce al cinema, non compie una “traduzione”: si rifiuta di tradurre perché sa che è un’azione fallimentare. Sembra per questo che Il Casanova è un’opera – al contrario – immobile, un’opera del sembiante, un dipinto. A differenza dei casi in cui i registi in luogo di dover fare un film tratto da un testo scritto si premurano non solo dell’attendibilità con la fonte, ma anche una certa continuità e sintonia con questa, qui non c’è nessuna possibilità di continuità linguistica con la matrice; semmai Fellini marca ancora di più l’abisso tra il linguaggio scritto e il linguaggio cinematografico, marca una certa impossibilità, un fastidio. Sembra l’imbarazzo che prova per il personaggio di Casanova a disturbare questa comunicazione pellicola-pagina e a stipare immobile il grande seduttore e impedire la sua esistenza all’interno della pagina scritta. Senza vita, disinteriorizzato e anche disincarnato Casanova compare adesso, sullo schermo, come un simulacro.

Allora forse non appare più come un caso se viene citata una scena dell’opera all’interno di un saggio sulla fotografia. Si tratta de La Camera Chiara dove Roland Barthes scrive: «alla scena in cui Casanova si mette a ballare con la bambola meccanica, i miei occhi furono colpiti da una sorta di acutezza atroce e deliziosa […] ogni dettaglio, che vedevo con precisione, assaporandolo, per così dire, fino in fondo, mi sconvolgeva: la snellezza, l’esilità della silhouette, come se ci fosse che un po’ di corpo sotto il vestito appiattito; i guanti consunti di seta bianca, l’acconciatura con quel pennacchio un po’ ridicolo (ma che mi commuoveva), quel volto imbellettato e tuttavia personale, innocente: un che di disperatamente inerte e tuttavia disponibile, di offerto, di amante, come di impulso angelico di “buona volontà”. Pensai allora irresistibilmente alla Fotografia: infatti, tutte quelle cose io potevo dirle anche a proposito delle foto che mi commuovevano (con cui avevo costruito, con metodo, la Fotografia stessa).»

Ecco che sembra stagliarsi più di un profilo, più di un orizzonte dell’immobilità tra i veli. Sono tracce possibili delle possibili vite di un’immane opera: la prima è il principiarsi di questa ambigua e seducente immobilità sintetizzata tutta nella scena citata; la seconda è un’immobilità che sovrasta il singolo episodio per riguardare l’intera pellicola. La tragedia del Casanova di Fellini e la tragedia della fotografia sono la medesima cosa: l’immobilità che trasforma il soggetto in eidòlon, quindi in definitiva in oggetto, in morte, come ancora scrive Barthes.
“Giacomo, ma i tuoi viaggi attraverso il corpo delle donne dove ti portano? In nessun luogo” questa la sentenza profetica di Egard, singolare personaggio, quando incontra il Nostro. Eccolo, in questa rivelazione esatta, che – incapace di viaggiare – si muove (licenza obbligatoria) tra trucchi, abiti e i calcoli della galanteria, soltanto alla ricerca di una verità dei corpi, forse di un corpo suo, personale. È per questo che il problema del “nuovo” Casanova sembra essere tutto estetico – la scena, la vanità, ancora la scena – piuttosto che un problema esistenziale, morale o filosofico – come tra l’altro il personaggio di Fellini vorrebbe far passare e non manca mai di ricordarlo.

Quanto alla scena riportata, è certo che quando vediamo apparire l’automa con le sembianze di donna e con un nome proprio, Rosalba, assistiamo all’assenza di motilità e quindi di vita, stavolta personificata. L’unica vita che sembra averla toccata – chissà quando, chissà dove – sta nella verosimiglianza dei guanti consunti, dell’acconciatura, del belletto. Questa poca esistenza è in fondo il fatto estetico che irradia a sprazzi di dettagli questo meccanismo di donna. Allora ancora Barthes quando elabora il suo metodo per indagare la fotografia distinguendo lo studium dal punctum: se il primo è il bagaglio delle conoscenze mediate dalla razionalità che una data fotografia è in grado di fornirmi, il secondo è esattamente la puntura che buca lo studium, ciò che è fuori dalla storia, ciò che anima la foto, la rende capace di movimento e fa accadere qualcosa: una “fatalità che mi punge”. È per questo – per questa specie di presenza improvvisa del punctum – che l’inerzia di Rosalba è scossa. I suoi abiti, i suoi dettagli la rendono propria e irripetibile, in una parola vivente. A Casanova non è data nemmeno la possibilità di questi deboli e commoventi squarci di vita, infatti per lui non si riesce a provare pietà e soprattutto non ci si innamora; semmai si è distratti dal trucco, dal suo esito inumano e deforme che dà a questo personaggio.

Tra i due – Casanova e la bambola – si instaura quello che sembra aleggiare per l’intero film in tutti gli incontri sessuali e amorosi: l’ipotesi (la possibilità) che questi in fondo non siano avvenuti mai veramente, il fantasma dell’impotenza, in questo caso impotenza tutta interiore del protagonista. Rosalba è il desiderio e il desiderio è un sentimento immobile, è il ritornello di una vita. È per questo che la sua stasi non appare passiva e inerme come ci si aspetterebbe; è invece investita di una potenza sinistra, è una figura ieratica sotto la quale Casanova non può che soccombere ed essere più solo.

L’organismo vivente della letterarietà è perduto per sempre per cedere il passo all’inorganico che si configura nel finale del film (la definitiva trasformazione del protagonista da corpo a oggetto). Prima di questo momento Fellini ha già sferzato duri colpi alla scrittura (la letteratura e la sua autorevolezza). Accade nella significativa scena del suicidio mancato di Casanova, quando questi immergendosi nelle acque del Tamigi recita enfaticamente Torquato Tasso vestito con il suo più bel abito. La stilettata è inferta: ci sia accorge di essere di fronte ad una scena comica, di una comicità che invade irreparabilmente la nobiltà delle citazioni letterarie. Qui l’impossibilità della morte è l’impossibilita di sfogliare la pagina, l’impossibilità di chiudere un libro.
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