di Simone Lorenzati
Noi abbiamo due storie qui: una è quella di un clero degenerato, e l’altra è quella di un gruppo di avvocati che trasforma l’abuso su minori in una miniera d’oro. Allora, quale storia vuoi che scriviamo? Perché una la scriviamo.
(Mark Ruffalo alias Walter ‘Robby’ Robinson)

Thomas McCarthy, regista de il caso Spotlight, possiede un pregio raro: il saper lavorare su tempi lunghi, su una sceneggiatura che utilizza tutte le sue due ore abbondanti di durata per arrivare al punto, non cercando mai piccoli trionfi oppure intermezzi che risultino più o meno soddisfacenti. La sua pellicola – vincitrice di due Oscar come miglior film e migliore sceneggiatura – è una sorta di film-fiume, privo di scene madri, e tuttavia capace di mettere in ombra se stesso rispetto alla storia.
La trama riprende il (vero) scandalo di pedofilia interno alla comunità cattolica di Boston, che sconvolse gli Usa una ventina di anni fa, precisamente nel 2002, per poi presto allargarsi ad altre diocesi. Qui lo scandalo ci viene mostrato dal punto di vista dei giornalisti del Boston Globe che l’hanno smascherato e raccontato, due azioni che nel film assolutamente coincidono. Ma la pedofilia, a ben pensarci, è forse l’ultimo degli interessi del film, ciò che ormai tutti sanno, eppure la storia è raccontata con profondo rispetto per le vittime. Il suo primo obiettivo è invece di mostrare un percorso unitamente a un piccolo mondo dietro al quale si cela un enorme scandalo. Già perché il caso Spotlight racconta di una Boston cattolica apparentemente impeccabile, ma anche di come quel potere religioso penetri ovunque e contamini ogni struttura, di come ogni istituzione dipenda dalle altre. E non ultima proprio il giornale.

Imitando i giornalisti protagonisti della pellicola McCarthy sembra essersi chiesto ad ogni scena come realizzare il massimo grazie al minimo, e anche l’ottimo cast pare impegnato in una gara di sottrazione. L’unica eccezione è rappresentata da Mark Ruffalo, il solo a caricare la propria interpretazione e capace, tuttavia, di farlo con una superba maestria.
Il risultato è che l’opera riesce contemporaneamente a delineare un personaggio estremamente sobrio come il direttore del Boston Globe – compare poco e parla anche meno, sembra non contare niente ma è il motore di tutto, autorevole seppur con il minimo sforzo – e architettare una storia molto complicata e complessa da chiarire, con lo scopo di portare a conclusione un ragionamento dove si fanno estremamente labili i confini tra responsabilità collettiva e individuale.
Un film intenso ma senza fronzoli in cui l’inchiesta giornalistica riesce a far emergere la verità a discapito di un contesto esterno, ma anche combattendo contro il proprio tornaconto personale, che vorrebbe fortemente avvenisse l’esatto contrario. Insomma fatti che vanno rivelati senza altro fine se non quello derivante da un’intima e insopprimibile necessità morale. E’ il perimetro deontologico del miglior giornalismo investigativo. Esso segna un confine netto – dentro solo l’essenziale, mentre il resto sta fuori – che immerge il mondo in un cono di luce nuovo per far vedere e far capire. E il buon cinema d’inchiesta segue le medesime dinamiche.
Gli autori dell’inchiesta da Pulitzer che svelò i numerosi casi di pedofilia nella chiesa locale e la ragnatela di complicità morali dentro e fuori il Vaticano, non cercano gloria per sé stessi, non vogliono vendere più copie inseguendo lo scandalo, non ricamano sul tessuto macrabo e triste dei fatti, ma vogliono solo vederci chiaro per far capire. Perché quei crimini devono cessare. E il male va affrontato.

Non vi è nulla, infatti, di minimamente morboso nella pellicola. Cosa la caratterizza, piuttosto, sono solamente la curiosità e la determinazione morale di quattro giornalisti che credono fedelmente nella propria professione, infischiandosene che la maggior parte dei lettori del loro quotidiano sia cattolica. Il film racconta senza fronzoli i vari passi dell’inchiesta, vecchia maniera, tra faldoni, documenti secretati, confessioni a mezza bocca e omertosi sorrisi, senza tralasciare, ma anche senza romanzare, alcunché. McCarthy costruisce così un’opera parlatissima ma mai noiosa, fatta di inquadrature strette sui volti degli attori e sulla semplice purezza del campo controcampo, dove ogni scena aggiunge sempre qualcosa in più al puzzle complessivo dell’indagine, alla storia da raccontare.
Un team di investigatori d’assalto che riuscirono a scardinare il muro di ipocrisia e di silenzio eretto dalle istituzioni e dalla comunità bostoniana portando ad accuse per ben ottantanove sacerdoti, al temine di un’inchiesta durata quasi un intero anno. Il focus del film, insomma, è nelle riunioni redazionali, nelle telefonate, negli incontri, nell’analisi di documenti omessi oppure scomparsi. E McCarthy è attentissimo nel calibrare le sfumature psicologiche dei personaggi e nel descrivere tutta la fatica del mestiere e della cronaca.
Il caso Spotlight, in definitiva, ci ricorda come il mestiere di giornalista possieda ancora padri nobili e principi non negoziabili. Nonostante le notizie un tanto al chilo che spopolano, a tutte le ore del giorno e della notte, online.

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