Dieci inverni, di Valerio Mieli (2009)

di Marzia Procopio

È l’inverno del 1999. Venezia è bianca, avvolta in una luce che la caratterizzerà per tutto il film. Sul vaporetto che attraversa la laguna, Camilla, appena arrivata dal paese d’origine per studiare letteratura russa all’Università, nota un ragazzo, anche lui con una valigia, anche lui appena arrivato. Lei porta con sé una lampada, lui uno strano albero: il regista, che già sa, ci indica la direzione di una condivisione, per ora impossibile, ma già nelle cose. Inizia una serie di sguardi e di parole, il lungo prologo di un amore che avrà termine dieci anni dopo. Il ragazzo si chiama Silvestro, ha la stessa età di Camilla, e fingendo una spavalderia che non ha, quando il vaporetto attracca si fa invitare a casa dalla giovane.

Comincia in quel momento e in quel modo un amore che si prepara per dieci anni e si coronerà alla fine di un lungo percorso di conoscenza, diffidenza, litigi, gelosie, sullo sfondo di una Venezia plumbea e di una Mosca avvolta nella neve. Camilla e Silvestro, ogni inverno, si incontrano e si scontrano; sono sempre sul punto di dirsi cose importanti, si scrivono lettere, trovano ogni volta scuse o ostacoli: una volta lui ha una relazione, l’anno dopo lei, una volta lui la vede da lontano al mercato di Rialto, un’altra – nell’inverno del 2007 – li vediamo alle estremità di una grande piazza, resi invisibili l’una agli occhi dell’altro da una chiesa, in una scena di sospesa intensità. Si rivedono in Russia, ospiti al matrimonio di una vecchia amica. È questa l’occasione nella quale Silvestro dichiara il suo amore a una Camilla che aspetta un figlio e che si irrita mentre gli dice di no, “adesso è troppo comodo”, provocando l’ennesimo strappo. Eppure, soltanto due anni dopo, quando scoprirà che l’amica e Simone, anche lui un amico di gioventù, si sono già lasciati dopo la nascita della bambina, sarà lui a cercarla, come fa da dieci anni, a trovarla trascurata e triste mentre si nasconde a casa di suo padre. Nemmeno allora Silvestro ce la fa: lei è depressa, gli si attacca buttandogli addosso una responsabilità che lui non si sente di assumersi – quella della felicità della donna – e di nuovo scompare.

Mieli racconta la storia di Camilla e Silvestro (che ha già scritto in un romanzo dello stesso anno e che uscirà poche settimane dopo edito da Rizzoli) attraverso dieci episodi che avvengono nei mesi invernali. I dieci quadri non appaiono mai forzati, perché la scrittura li rende densi di verità e varietà anche grazie ai dialoghi, ispirati allo stesso criterio di naturalezza dei piccoli fatti narrati, né frammentari, perché c’è un lucido sguardo d’insieme a tenerli. Ogni volta, l’incontro fra Camilla e Silvestro è uguale e diverso: uguale perché sembra che non si siano separati mai, anche se non si vedono da mesi, diverso perché hanno sempre da raccontarsi e perché stanno crescendo, cambiando, custodendo un sentimento tanto più presente e denso quanto meno riesce a prorompere, a sprigionarsi. Presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2009 nella sezione Controcampo e al Tokyo International Film Festival, Dieci inverni ha vinto il David di Donatello 2010 per il miglior esordio e il Nastro d’argento nello stesso anno come miglior opera prima. Diretto con toni mai banali da Valerio Mieli, allora regista diplomando del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (che lo produsse con Rai Cinema e United F.C.), il film nasce come un progetto-tesi. Con il supporto di Isabella Aguilar e Davide Lentieri alla sceneggiatura, Mieli procede per frammenti, mostrando solo l’essenziale della crescita dei due protagonisti e del loro amore: qualsiasi relazione è fatta di gocce di memoria, di eventi di cui non ricordiamo che quelli più significativi, e l’arte dello scrittore, e del regista Mieli in questo caso, sta nella capacità di individuare il fil rouge che tesse fra loro nella trama del canto d’amore gli eventi degni di essere trattenuti nella memoria. Non servono molte parole per descrivere il sentimento che cresce – l’amore può crescere anche nella distanza, talvolta di più – i corpi si sfiorano senza mai godere della pienezza l’uno dell’altro. Dopo la prima notte insieme, mentre Camilla è addormentata accanto a lui nella gelida, bianca mattina della laguna, Silvestro ne assapora il profumo; durante il loro ballo al matrimonio di Liuba, a parlare sono le teste, delicatamente appoggiate l’una nell’incavo della spalla dell’altro, le mani a sfiorarsi titubanti la spalla, la giacca. Sulle note di Parla piano di Vinicio Capossela, che nel film ha un cameo, si srotola la vita con la sua inconcludenza, le sue paure, le disabilità emotive, e i pochi baci del film sono i movimenti più goffi del loro amore.


Nella neve di Mosca, nella nebbia della laguna, fra i colli veneti del Valdobbiadene, però, lo sguardo del regista scalda le inquadrature di ambientazione invernale con la tenerezza che prova nei confronti dei protagonisti. Isabella Ragonese, di cui il cinema italiano non ha ancora valorizzato appieno bravura e luminosità, dà corpo e luce a una Camilla schiva, timida, spesso scontrosa e ambivalente, sicuramente esigente con se stessa e con Silvestro, che ha invece un carattere più leggero, libero, caratterizzato da un’inettitudine talvolta tenera, talaltra irritante. Tra i due si instaura una danza che dà il senso e il ritmo delle stagioni che si susseguono, non tutte della stessa intensità, ma tutte tappe fondamentali del percorso di entrambi, perché il film è anche racconto di formazione, e di questo usa gli strumenti narrativi – la divisione in episodi, appunto, la struttura ellittica, per raccontare l’evoluzione dei protagonisti. Inizialmente estroverso, quasi spavaldo, Silvestro negli anni diventa più ombroso e titubante, ma sempre generoso nella sua disponibilità ad assecondare gli slanci: è suo il primo approccio, nelle scene iniziali sul vaporetto, è suo l’ultimo slancio, quando di nuovo scende dal vaporetto per seguire Camilla nella ‘loro’ casetta sulla laguna. Riondino lavora sul personaggio in sottrazione, togliendo le parole, con lo sguardo del giovane passionale e irrisolto, molto bravo nell’intercettare la maturazione del giovane da ragazzo spavaldo a giovane uomo pronto ad ammettere le sue paure; gli algidi sguardi in tralice di Isabella Ragonese nascondono la passione ambivalente di Camilla, così severa, più matura di lui, più alla ricerca di struttura – il professore russo con cui ha una relazione, tanto più grande di lei, la figlia avuta quando è ancora giovane – e per certi aspetti capricciosa, perché pretende da lui che prenda l’iniziativa ma poi lo censura, perché i momenti non coincidono: e se è vero, come scrive Roland Barthes nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, che all’interno della dinamica amorosa la dimensione fondativa e identitaria del sentimento amoroso è l’attesa, che si configura sin da subito come attesa dell’altro e aspettativa nei suoi confronti, allora è vero che l’innamorato che non aspetta è egoista, e Camilla è un’amante meno innocente e pura di quanto non si accrediti.

Eppure, dopo ogni delusione di Camilla, a ogni nuovo incontro tutto il passato è dimenticato, tutto è pronto a ricominciare, perché Camilla e Silvestro sono l’uno lo specchio dell’altra, tenuti insieme e lontani dallo stesso orgoglio e dalla stessa testardaggine, uniti da una familiarità originaria e naturale, divisi dal dissimile livello di maturazione; solo che dovranno prima fare la loro strada per scoprirlo e così incontrarsi alle stesse profondità. In questi dieci inverni pesa anche, forse, il senso di precarietà che caratterizza le vite dei trentenni fin dal primo decennio del ventunesimo secolo: la precarietà dei rapporti, dei lavori non più tutelati e dati per sempre, la disillusione che avvolge le azioni e le relazioni fra i personaggi. Anche questo aspetto sociale e storico contribuisce al tono di questo delicato e minimalista film “del diploma”, che non proclama l’amore ma lo dipinge con i colori ovattati e nivei della fotografia di Marco Onorato: simile, per certi aspetti, a Un amore di Tavarelli, per altri a Prima dell’alba e Prima del tramonto di Richard Linklater. Un film che lo stesso Mieli all’epoca della sua uscita definì un “anti-colpo di fulmine” e che, come film che conclude anche il percorso di crescita del suo regista, ha come cifra proprio l’affetto verso i protagonisti, anch’essi nel corso del film impegnati nel passaggio dalla maturità anagrafica dei loro diciotto anni a quella effettuale dell’esperienza. È in questa vicinanza del regista, all’epoca trentenne, ai suoi personaggi che sta la bellezza delicata del film, il carattere che lo rende indimenticabile a chi lo ha visto. Lo stesso sguardo amorevole che ritroveremo nel secondo lungometraggio di Mieli, Ricordi?, anch’esso debitore a Un amore di Tavarelli e sostenuto dalla stessa regia raffinata che nel 2009 ha fatto di questo film d’esordio un’opera già matura, ponendola nel novero dei film più originali e meglio scritti del cinema italiano degli ultimi anni. Un piccolo, imperdibile gioiello.

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