di Marzia Procopio
Ogni settimana, la ventinovenne Cassie Thomas va in discoteca da sola e finge di essere ubriaca; andatura instabile, abiti sexy, trucco sfatto, discorsi confusi, postura scomposta, e di solito non passa molto tempo prima che un uomo apparentemente gentile si avvicini e si offra di aiutarla a tornare a casa; salvo poi che non la riaccompagnano a casa, perché il più delle volte trovano invece una scusa per portarla a casa loro, nella speranza che sia così ubriaca da poterci fare sesso anche se lei dice di non sentirsi bene o di voler andare a dormire. Quando però iniziano a toglierle i vestiti, il loro piano inizia ad andare storto: all’improvviso, gli occhi di Cassie si mettono a fuoco e il tono della voce diventa minaccioso, mortale, mentre li guarda gelida e chiede “Cosa stai facendo?”. Non è affatto ubriaca e il cacciatore sta per diventare la preda. Caduto nella trappola, l’uomo di turno viene messo di fronte alla gravità del suo comportamento e dissuaso, con metodi più o meno ortodossi, dal replicarlo. Questa è la premessa di Promising Young Woman, il film scritto e diretto da Emerald Fennell che, oltre ad aver vinto il premio Oscar 2021 per la miglior sceneggiatura, ha raccolto altre quattro nomination: miglior regia, miglior attrice protagonista, miglior montaggio e miglior film.

L’argomento – il tema dello stupro e della sua accettazione in una società in cui vige un potere paternalista e maschilista – è attuale e scottante, e la regista, che è stata produttrice e scrittrice della serie del 2019 Killing Eve e interpreta Camilla Parker Bowles in The Crown, lo affronta in maniera personale, intelligente, originale, mettendo al centro del suo racconto Cassandra Thomas, ex studentessa di medicina che lavora in una caffetteria e conduce una vita ritirata e anomala da quando, sette anni prima, la sua migliore amica Nina è morta in seguito a uno di quegli episodi che solo oggi, finalmente, abbiamo la forza di chiamare “stupro”, ma che fino a pochi anni fa venivano considerati delle goliardate ai danni di donne ubriache e perciò considerate colpevoli d’ufficio. Un comportamento diffuso e assolutamente normale, frutto di quella “cultura dello stupro” che mette sotto accusa le donne e derubrica l’abuso sessuale facendolo passare per una sorta di coercizione morbida operata ai danni di donne moralmente discutibili, o quantomeno delle ingenue che “se la vanno a cercare”, da parte di uomini in vena di goliardate con gli amici.

I primi fotogrammi mostrano corpi maschili che si dimenano, si strusciano, ancheggiano al ritmo di una musica accattivante: il disgusto della regista è nell’occhio della macchina da presa, che li riprende così da vicino e ne segue le mosse, che mimano l’atto sessuale. Subito dopo appare la protagonista, seduta su un divano, con una camicia bianca e una gonna nera, gli occhi pesantemente bistrati, bellissima, sexy e ubriaca. Sono passati due minuti e l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un dramma ideologico a tesi, la “solita” polemica femminista che obbedisce all’ultimo diktat di Hollywood e bolla ingiustamente tutti gli uomini macchiandoli con lo stesso pennello. Nel prosieguo del racconto, però, si capisce che il discorso della regista è un po’ più complicato, e che il film offre molteplici livelli di lettura, configurandosi come atto d’accusa contro un’intera società, un’intera cultura, che tende a schierarsi con gli uomini più che con le donne. Rispetto ai revenge-rape movie, cioè i thriller in cui le donne perseguitano i loro stupratori per fargliela pagare, in Promising Young Woman non c’è una catarsi: anche il finale, che ristabilisce, in qualche modo, la giustizia, non assolve nessuno, ma soprattutto non “libera”, perché nella storia che il film racconta non c’è soltanto lo stupro con le sue tragiche conseguenze – la depressone di Nina, il suicidio – ma c’è soprattutto l’atto di accusa a un’intera società. Cassie vuole affermare fino alla fine che si può ricevere perdono e redenzione solo se si riconosce quanto di brutto, riprovevole, ingiusto e profondamente sbagliato si è fatto: ma (quasi) nessuno dei personaggi implicati nella vicenda, nemmeno alla fine e dinanzi all’evidenza, è disposto ad ammettere di aver sbagliato, di essere colpevole. Se c’è un significato allegorico, nel film, se c’è una morale, è proprio questa: la giustizia può trionfare solo nella verità, ricominciare a vivere è possibile solo se c’è un pentimento che venga dall’esercizio di empatia, dalla scelta di “camminare nelle scarpe di un altro”. A questo sono finalizzate le molte azioni riprovevoli compiute da Cassie: far credere a Madison di aver fatto sesso da ubriaca con uno sconosciuto, assoldare un killer per l’avvocato che difendeva gli abusatori all’università, rapire la figlia della rettrice per farla riflettere sulla gravità del suo comportamento di allora.

Carey Mulligan dà corpo e voce a una vera forza della Natura, contemporaneamente bambina con i maglioncini color pastello e le acconciature sbarazzine e poi femme fatale in gonna stretta o uniforme da sexy infermiera pop. Ma attenzione: Cassie non è una vendicatrice spietata come la Beatrix Kiddo di Kill Bill o la Lisbeth Salander di Uomini che odiano le donne, né somiglia alla Sarah Tobias di Sotto accusa di Johnathan Kaplan, che nel 1988 aveva affrontato lo stesso tema punendo la colpa degli stupratori, calata in una cornice storica e sociale, con i mezzi consentiti dalla legge. Cassie è una ragazza rimasta fissata, a causa del trauma, a una condizione infantile: indossa golfini rosa fluo, abiti a pois o a quadretti Vichy; ha unghie colorate di diversi colori, non ha legami né relazioni sessuali, vive con i genitori. Era una promettente giovane donna che però, segnata da un passato doloroso rispetto al quale non riesce ad andare avanti, come pure le chiedono i suoi genitori e la madre di Nina, non è un personaggio moralmente superiore: vagamente sociopatica, maltratta gli avventori della caffetteria in cui lavora, mente ai suoi genitori; chiusa nel suo mondo inaccessibile, ossessionata dall’idea della vendetta, è disposta a tutto pur di portare a termine il proprio piano, cioè costringere i colpevoli della morte di Nina a chiedere scusa dopo aver provato le stesse emozioni che deve aver provato la giovane anni prima.

Ciò che disorienta è la compresenza in lei di furore e fragilità: tutto ciò che Cassie sta cercando è una persona che ammetta che quanto accade è profondamente sbagliato, e che lei fa bene ad essere arrabbiata, perché quella tragedia non sarebbe dovuta succedere. Ma nessuno, fino alla fine, è disposto a dirglielo, perché nessuno vuole ammettere di aver fatto parte di qualcosa di così terribile, e chi, come lei, soffre per la scomparsa di Nina, non vuole più torturarsi, vuole solo “andare avanti” mentre i complici si protestano innocenti perché “allora era così” o “ero solo un ragazzo, allora”. Una splendida ragazza è morta, mentre restano vivi e felici troppi rampolli della borghesia, troppi uomini rassicuranti e carini: «È un film che parla di cosa succede quando persone che ci piacciono compiono cattive azioni» ha dichiarato Emerald Fennel in un’intervista alla BBC Radio 1, ed è per questa ragione che il cast maschile annovera i volti noti e rassicuranti di Adam Brody (il Seth Cohen di The O.C), Max Greenfield (Schmidt di New Girl), il comico Christopher Mintz-Plasse e il Bo Burnham di Inside, perché il pubblico abbia chiaro, come Fennel, che gli stupratori non sono necessariamente sordidi individui appostati nel buio, ma possono essere anche uomini socialmente rispettabili, di buona famiglia, brillanti, persone che per la nostra società così profondamente permeata di cultura patriarcale sono tanto difficili da incolpare che si preferisce condannare le loro vittime.

Presentato al Sundance nel gennaio 2020 e uscito nel dicembre successivo, strutturato dal punto di vista drammatico in modo così nitido e audace che si fatica a lasciar andare le sensazioni che suscita, Promising young woman parte come un thriller, sembra trasformarsi, con grande stridore, in una commedia romantica dai colori pastello capace di ospitare persino la scena di un balletto sulle note di una canzonetta di Paris Hilton, diventa infine un revenge movie. Sostenuta da una colonna sonora pervasiva e azzeccatissima, che rivisita successi come Nothing’s Gonna Hurt You Baby, It’s Raining Men e Stars Are Blind, oscillante fra toni dark, iperrealismo e cultura pop, la pellicola declina il tema dello stupro in una dimensione personale e personalizzata al punto che Cassie, da vittima di riflesso, non solo si trasforma in una vendicatrice, ma prima crea e poi scioglie la trama degli eventi. Qui sta la forza e insieme la peculiarità del film: slittando da un genere all’altro,mettendo in scena la rappresentazione di una vendetta personale e personalizzata, il film da una parte ha forza e capacità rare di impattare sulla memoria emotiva dello spettatore – i più giovani in particolare, digiuni di modelli con cui confrontarlo e più consapevoli dei modelli culturali da combattere – ma dall’altra, mutando linguaggio durante il suo farsi e muovendosi costantemente dal piano privato ed emotivo a quello pubblico e ideologico, può risultare disorientante proprio perché il suo messaggio si stempera sul finale: da atto d’accusa nei confronti degli uomini – nessuno si salva, neppure quello che fino a venti minuti dalla fine sembrava il fidanzato perfetto e si presenta anche lui come attore della rape culture – a sferzante giaculatoria moralistica della protagonista, una sorta di eroina tragica, di deus ex machina che si può affermare una volta per tutte solo autodistruggendosi, il film non lascia speranza di cambiamento né per i personaggi meno esposti né tanto meno per Cassie, stritolata da una visione fatalistica in conseguenza della quale ogni donna è destinata a subire o, se cerca vendetta, a pagare un prezzo altissimo. Vendicando infatti l’amica nel modo in cui sceglie di farlo, Cassandra non consente alla cerchia dei colpevoli di fare ammenda e di redimersi, per superare finalmente il trauma, ma condanna il suo discorso a restare un feticcio, la sua azione a rimanere fine a se stessa, proprio in virtù della forte risposta emotiva che elicita l’ingegnoso piano da lei messo in atto.

Chi è il colpevole? Lo stupro, sembra dirci Fennell, è una coazione a ripetere; la colpa di chi l’ha commesso e permesso è una colpa collettiva e permanente che non ammette redenzione per nessuno.
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