di Simone Lorenzati

La città ideale ha segnato, ormai nove anni or sono, l’esordio alla regia da parte di Luigi Lo Cascio, peraltro qui autore anche del soggetto e della sceneggiatura.
E in La città ideale Luigi Lo Cascio interpreta un ecologista convinto, ossia l’architetto Michele Grassadonia. Lasciata Palermo, ormai vent’anni prima, decide di andare a vivere in Toscana, in quella che egli reputa essere, sopra tutte altre, veramente la città ideale, ovvero Siena.
Mal visto dai colleghi per le sue manie ambientaliste, vive da solo in un asettico appartamento in cui ha deciso di rinunciare all’elettricità e all’acqua corrente, facendo quindi ricorso all’acqua piovana, e ad altri ingegnosi macchinari creati da un suo amico, per provare ad andare avanti in una situazione di apparente normalità.
E proprio a Siena, durante una notte di tempesta, mentre sta guidando un’auto – ovviamente elettrica – per riportare a casa un collega che abita in provincia, tampona una sagoma dai contorni indefiniti, andando poi a sbattere contro la fiancata di un’altra automobile parcheggiata. Poco più avanti, mentre cammina controllando i danni alle due vetture, si accorge di un corpo sdraiato sul bordo della strada. Seppur perplesso, Michele torna indietro e chiama i soccorsi. Ed è da qui che cambierà per sempre la sua vita. Interrogato dalla polizia, Michele racconta tutto ciò che ricorda con estrema sincerità e candore. Il problema è che vi sono dei buchi nella sua ricostruzione e così, ben presto, la polizia, anche vedendo l’ammaccatura sulla sua auto, si convince della sua colpevolezza.
Insomma Michele Grassadonia si trova a divenire il primo indagato per l’omicidio colposo del dottor Sansoni, potente notabile della città.

Immerso in atmosfere noir dall’evidente matrice kafkiana e condito dalle efficaci musiche di Andrea Rocca, La città ideale è un film dalla struttura solida, in cui le relazioni tra i personaggi si instaurano anzitutto attraverso un attento gioco di sguardi e di gesti.
L’attenzione per il dettaglio riproduce, sia a livello registico sia a livello formale, esattamente ciò che il protagonista insegue nella sua vita quotidiana: la perfezione e la purezza degli ideali, perseguiti con un’insistenza eccessiva che – agli occhi della società e di chi lo circonda – tende a sfociare nel ridicolo. Ecco allora che la fede ecologista di Michele si pone come una sorta di barriera, come un primo motivo di un’emarginazione che diventerà via via sempre più completa nel corso delle indagini.
Luigi Lo Cascio firma un buon giallo senza, tuttavia, rinunciare ai contorni umoristici, in cui la ricerca spasmodica della verità e la sua trasmissibilità – o meno – al mondo esterno sembrano arrivare a soffocare il protagonista per condurlo, lentamente ma inesorabilmente, all’interno di una trappola da cui sarà sempre più difficile liberarsi.

A questo proposito, l’universo macabro che la bella artista affittuaria Alexandra (Catrinel Marlon, qui al suo debutto cinematografico) riproduce nei suoi studi sulla cattura, non è da considerarsi come una pura e semplice digressione, bensì come una sorta di richiamo traslato e simbolico alla gabbia di parole che – come un’enorme tela di ragno – lo stesso Michele Grassadonia ha inconsapevolmente costruito attorno a sé.
Ed è davvero interessante notare come la rincorsa e la spasmodica ricerca della verità qui diventi il tramite per un esame di autocoscienza che il protagonista fa su di sé, costretto dagli eventi a confrontarsi con le proprie manie giornaliere e, al tempo stesso, a mettere insieme i pezzi sbiaditi di un puzzle cui l’episodio dello stalliere distratto (Roberto Herlitzka) sembra per un attimo poter dare una forma più precisa.
Il binario è duplice: si può arrivare al male pur volendo fare del bene – e la casualità degli eventi è la prima indiziaria. E si può, soprattutto, avere ingiustizia nel momento in cui, paradossalmente, ci si rivolge ai Tribunali ed alla Giustizia. Insomma questo film sobrio ci mostra l’annientamento di una persona qualunque quando, improvvisamente, dalla sera alla mattina, si trova a dover giustificare ogni sua azione e ogni sua parola espressa di fronte alle autorità.

E mentre Grassadonia distrugge con le proprie mani tutta la sua vita, il pubblico segue il dipanarsi di questo racconto. Ed è un racconto che inizia spensierato, per poi passare al grottesco, approdare al noir per chiudere, infine, drammaticamente. Insomma si comincia la visione col sorriso, poi sopraggiunge lo stupore, si scivola nella tristezza per terminare, con l’ultima scena, ammutoliti e scorati.
La narrazione è semplice, eppure al contempo efficace, e dimostra come le azioni possano essere percepite differentemente a seconda del coinvolgimento, delle emozioni ma soprattutto delle convinzioni. Ed è la plastica dimostrazione di come possa essere difficile – meglio ci starebbe impossibile – riuscire a provare in un’aula di giustizia le più diffuse e banali azioni (positive o negative) quotidiane.
Una sorta di monito: abbandonare gli ideali per poter portare decentemente il fardello di vivere.
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