di Roberta Lamonica
“Tutto è possibile: quello che si credeva fosse magia un secolo prima, nel secolo dopo diventa scienza. Credevano che Colombo fosse matto, e così Pasteur, Copernico, Aristarco ancora prima di loro.”

Mai prima di Eric Wilkinson, produttore de L’uomo che venne dalla Terra, qualcuno aveva ringraziato il pubblico per aver scaricato e distribuito illegalmente un film. Wilkinson e il regista del film, Richard Schenkman invece, si occuparono personalmente di una promozione quasi ‘casalinga’ del loro film, rispondendo su IMDb ai commenti e alle domande di utenti piacevolmente sorpresi da questa pellicola girata con un budget di appena 200.000 dollari.
Ultima opera di Jerome Bixby (It’s a good life, Fantastic Voyage, e 4 episodi culto della prima serie televisiva di Star Trek), la sceneggiatura di questo film rappresenta un po’ il suo testamento simbolico. Completata sul suo letto di morte nell’aprile 1998, Bixby dettò il finale al figlio Emerson, lo sceneggiatore accreditato.
L’uomo che venne dalla Terra è quasi interamente ambientato all’interno di un cottage in un’unica serata, quella della partenza del Professor John Oldman (David Lee Smith), inaspettatamente licenziatosi dal suo incarico come docente universitario. I suoi amici e colleghi – antropologi, archeologi, teologi, medici di altissimo profilo, come lui stesso del resto – si presentano a sorpresa a casa sua e cercano di indagare le ragioni della sua incomprensibile decisione di partire.

C’è affetto intorno a John Oldman, forse anche un amore. Sarà per questo che, in modo apparentemente casuale, egli lascia cadere la Grande Domanda che innesca l’azione del film: “E se supponessimo che un uomo dal Paleolitico Superiore fosse sopravvissuto fino ai giorni nostri?”
Un thriller, un film drammatico o una pellicola di fantascienza? L’uomo che venne dalla Terra è essenzialmente un dialogo affascinante e ipnotizzante sui più grandi interrogativi che affliggono da sempre l’Uomo: vita, morte, storia, evoluzione, cultura, tempo, religione, arte e immortalità. Le risposte date con sicurezza dal protagonista alle domande incalzanti dei suoi increduli colleghi, smontano con semplicità millenni di convinzioni e, per il ben costruito crescendo di tensione, rendono questo film degno di una visione, nonostante parte dei temi affrontati sia trattata con un po’ di superficialità o poco più che accennata. Incredulità, sospensione dell’incredulità e terrore, queste le reazioni dei colleghi di fronte alle scioccanti rivelazioni di quest’uomo che, con assoluto candore, racconta di mondi, di miti e personaggi storici che nel corso della sua vita immortale ha conosciuto, non tralasciando l’impatto dell’etica sulla storia dell’uomo e la critica alle varie interpretazioni fornite dalle religioni. Ma siamo davvero pronti a superare i limiti dei nostri sensi, la nostra tendenza a razionalizzare per abbracciare il mistero della vita e della morte? Siamo pronti a smontare gli schemi interiorizzati nel corso di millenni di storia umana?

Tutto è confutato, ogni paradigma viene reinterpretato secondo lo sguardo di un uomo che ha attraversato la storia da viaggiatore dell’Eterno. L’unico elemento musicale, il secondo movimento della Sinfonia n°7 di Beethoven, viene introdotto quando si apre la dissertazione sull’arte e sulla conoscenza come strumento di lettura della realtà. Forse proprio perché l’arte sfugge a qualsivoglia logica razionale. Affidandosi esclusivamente ai dialoghi, senza effetti speciali, azione o musica elaborata, ci si trova comunque avvinti dalle suggestioni e da una Storia che tiene lo spettatore paziente incollato allo schermo. Il colpo di scena finale è inaspettato e stridente e a quel punto viene proposto l’unico finale auspicabile: l’amore non conosce barriere razionali e non ha bisogno di progetti a lungo termine. L’amore allontana la morte e abbraccia una dimensione atemporale. L’uomo immortale lascerà dietro di sé i resti mortali di chi lo avrà amato portando invece con sé la forza immortale dei sentimenti che avrà suscitato e vissuto.

Ottima la chimica tra gli attori del film, le cui emozioni e reazioni compensano per la mancanza di azione, scenografia e di una regia solida (piatta e televisiva, a dire il vero). Nel cast figurano alcuni volti noti degli anni ‘80 e ‘90, come William Katt (Perry Mason e Un mercoledì da leoni) e Tony Todd (il killer Candyman), ma anche interpreti come John Billingsley (Phlox in Star Trek: Enterprise) o Richard Riehle (Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, Paura e delirio a Las Vegas). Al loro fianco ci sono presenze meno popolari ma che si rivelano perfettamente in grado di sostenere le performance molto più teatrali che cinematografiche di questo film. Su tutti, Ellen Crawford (Edith), Annika Peterson (Sandy) e Alexis Thorpe (Linda). Bravo David Lee Smith (Fight Club, Dollhouse, C.S.I. Miami, ecc.) a rendere con naturalezza e senza enfasi il complesso ruolo di John Oldman.

Un piccolo film che merita una visione, che non lascia indifferenti, nonostante i limiti del prodotto finale, perché quando la scrittura è efficace si può far buon cinema anche senza grandi nomi e comparti tecnici mirabolanti.
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