di Marzia Procopio
Alla fine delle vacanze estive, i ragazzi di un collegio francese tornano a scuola in un treno che diventa subito teatro dei loro scherzi. Alla stazione vengono accolti da un sorvegliante e allineati in fila per due. La sera stessa tre di loro – Bruel, Caussat e Colin – vengono messi in punizione per schiamazzi: primo zero in condotta dell’anno scolastico e niente riposo domenicale. Immediata la risposta: durante la ricreazione inizia il complotto dei tre, sotto lo sguardo di Huguet, l’insegnante più vicino ai ragazzi, che ricorda Charlot ed è capace di fare la verticale sulla cattedra suscitando l’entusiasmo dei ragazzi.
Quando Vigo presentò il suo terzo film (il più lungo, fino a quel momento, della sua carriera, di soli 47 minuti) per la prima volta, il 17 ottobre 1933, al Club de l’Écran di Bruxelles, ebbe occasione di dire che esso traeva spunto dai suoi ricordi di infanzia: “Dei fanciulli che vengono abbandonati una sera di ottobre alla riapertura delle scuole nel cortile d’onore da qualche parte in provincia sotto una bandiera qualunque, ma sempre lontano da Casa, dove si spera nell’affetto di una madre, nell’amicizia di un padre, se non è già morto”. Dal paziente lavoro di ricostruzione emozionale originano le precipue caratteristiche linguistiche di Zero in condotta, che conferiscono al film quella forte impronta di soggettività da taluni paragonata a quella di Amarcord di Fellini: immagini oniriche, primi piani inaspettati e improvvisi, composizioni della scena insolite, scene al ralenti e uso di filtri; ed è indubbio che Vigo ritrova la sua infanzia in quello scompartimento, in quel dormitorio con i suoi trenta letti identici, nell’amato Huguet e nel suo collega, il sorvegliante Pète-Sec, e ancora nel “sorvegliante generale, muto, dai passi leggeri di un fantasma”: “Alla luce della lampada a gas abbassata per la notte – si chiese Vigo davanti al suo pubblico – il piccolo sonnambulo ossessionerà ancora il mio sogno questa notte? E forse lo rivedrò ai piedi del mio letto come ci si trovava la vigilia di quel giorno in cui la febbre spagnola lo portava via nel 1919”.

Il mediometraggio, terzo lavoro di Vigo, fu giudicato, come gli altri del regista parigino, antipatriottico; censurato dalle autorità governative francesi, uscì nelle sale solo postumo, nel 1945. L’inizio è caratterizzato da tre elementi tipici del cinema di Vigo: ci sono i dati della realtà (qui uno scompartimento di terza classe, dei collegiali magrolini e con le divise), c’è il fantastico (l’atmosfera fumosa dello scompartimento), c’è l’assurdo (gli oggetti e i giochi dei ragazzi). Dopo il treno, l’azione si sposta nel dormitorio, dove si vede la sicura padronanza del mezzo cinematografico dell’allora ventottenne cineasta parigino: montaggio, movimenti di macchina, composizione dell’immagine, dialoghi, tutto in un’armoniosa unità. Nota con grande finezza il critico Paulo Emilio Sales Gómes nel suo Jean Vigo. Vita e opere del grande regista anarchico, Feltrinelli, Milano 1979, citato dal sito Il cinema ritrovato, che i movimenti della macchina da presa accompagnano in queste scene i ragazzi fino al loro letto, complice delle loro marachelle, in vigile attesa del ritorno al sicuro.

La sera stessa del loro rientro, in reazione a quella che considerano l’ennesima, ingiustificata punizione, i tre ragazzi decidono di vendicarsi, sostenuti anche dal compagno Tabard, presentato fin dalla scena della stazione con tratti delicatamente effeminati, che ha meritato il loro rispetto rifiutandosi di scusarsi pubblicamente con il rettore per “colpe” che lui non riconosce come tali. La ribellione prende corpo dapprima a pranzo, in refettorio, di fronte all’ennesimo piatto di fagioli; poi di notte nel dormitorio, dove il sorvegliante viene legato al letto tra una pioggia di piume; infine sui tetti della scuola durante una cerimonia ufficiale. La scena della rivolta in dormitorio è fortemente emblematica dell’idea di cinema di Vigo: attraverso le inquadrature rallentate dei ragazzini che marciano sotto una pioggia di piume, il regista vuole irridere, con un’immagine fortemente simbolica di libertà, l’ordine borghese, il vero bersaglio polemico.

Zero in condotta è il modello di diversi film ambientati a scuola che sviluppano il tema della rivolta alle istituzioni: gli hanno reso esplicito omaggio François Truffaut ne I quattrocento colpi, Lindsay Anderson in Se… e Marco Bellocchio in Nel nome del padre. Ma il tema della contestazione assume in questo film i modi di una rivolta allegra, fine a se stessa, animata da gioiose pulsioni represse; una ribellione che intende sovvertire l’esistente, qualunque esso sia, contro le ingiuste, arbitrarie punizioni subite dai bambini da parte di una scuola rappresentata in modo grottesco – si pensi al rettore nano e barbuto – e popolata da figure di adulti tipizzati, simili a marionette, contrapposti alla vivacità dei ragazzi, che appaiono come monelli senza freni – come è evidente nella scena dello scompartimento del treno, che riempiono di fumo di sigaro – e non certo come vittime designate.

Vigo propone, dell’infanzia e della preadolescenza, una rappresentazione smitizzata, e lo fa mettendo in scena l’allegria dei ragazzi, la loro capacità di reagire ai soprusi e di seppellire con una risata i tetri fantocci che li vorrebbero “sorvegliare e punire”: tetri come il potere, che, come ci insegna Spinoza, “ha bisogno che le persone siano affette da tristezza”. E qual è il contrario della tristezza? La gioia. Così, contro i richiami all’ordine e alla disciplina esercitati dalle gerarchie del collegio, contro l’idea di un’infanzia che replichi obbedienza e conformismo, i bambini di Vigo usano l’arma dello sberleffo e del ridicolo, e ciò che resta dell’esperienza traumatica della vita di collegio vissuto dal regista prende la forma di una rivolta che rinuncia ai toni da denuncia per configurarsi invece come dispetto e irrisione al sistema di controllo e disciplina architettato dagli adulti proprio contro quei bambini che pretendono di voler “educare”; tra loro, si salva solo il professor Huguet: più giovane degli altri, trasognato e buffo, Huguet è un adulto che ha saputo custodire dentro di sé il bambino interiore e i tesori dell’infanzia, ed è il personaggio che esprime il punto di vista del regista. Conquista i ragazzi con l’imitazione di Charlot, amatissimo sia da Vigo sia da Renoir, il regista cui, come sottolinea François Truffaut ne I film della mia vita, Vigo si ispira: e secondo Truffaut la ripartizione mediante sottotitoli che commentano spassosamente la vita nel dormitorio e nel refettorio è arrivata a Vigo da Tire au flanc (1928) di Renoir, direttamente ispirato a sua volta dal Chaplin di Shoulder Arms (Charlot soldato, 1918).

Fatto salvo Huguet, gli adulti sono dei pupazzi grotteschi, soprattutto le figure che incarnano l’autorità all’interno del collegio: il rettore, il sorvegliante generale Santt detto Bec-de-Gaz, e il sorvegliante Parrain detto Pète-Sec. Grottesco è un altro insegnante, “Cornacchia”, sorpreso a rubare i dolci degli studenti; ambiguo è il professore di scienze, le cui sgradite attenzioni provocano la violenta reazione verbale (“C’è merda”) di Tabart, che viene così definitivamente accettato dai tre ribelli. Da notare che Y a la mérde è l’anagramma dello pseudonimo del padre di Vigo, Eugene Bonaventure de Vigo, noto anarchico francese, direttore del giornale «Le Bonnet Rouge» in cui era solito firmarsi come Miguel Almereyda.
Si salvano invece due adulti del popolo, la cuoca e il garzone del bar che asciuga i bicchieri per la festa, che rappresentano, realisticamente, una qualunque brava donna o un qualunque bravo giovane. Lo stesso realismo riservato alla scelta delle figure del popolo ha guidato Vigo nella scelta dei ragazzi, che somigliano a ragazzi di un collegio povero di provincia: dalle gambe magre, né belli né brutti, a volte un po’ sporchi. Ha scritto Paulo Emilio Sales Gómes che due sono i mondi presenti in Zéro de conduite: da una parte quello dei bambini e del popolo, dall’altra quello degli adulti e della borghesia.
Il film passa impietosamente in rassegna i comportamenti degli adulti e la violenza delle istituzioni che essi incarnano, ma, come ha osservato uno dei più acuti critici di Vigo, James Agee, non vuole proporre “prescrizioni cliniche”. Con i suoi ragazzi, il regista non è mai compiacente: li ama, ma quando ne coglie la mancanza di libertà e di coraggio, sottolinea in questa mancanza la vera radice del male. Al mondo dei giovani, che agli occhi di Vigo appare già deprivato di qualsiasi autonomia e creatività, Vigo vuole, con questo film, dare immagini e parole che siano solo loro, che esprimano un punto di vista esclusivo, parziale e assolutamente tendenzioso, e dall’interno di un mondo, quello dell’infanzia, che non si pone in contatto, se non in negativo, con il mondo adulto.

Per questo motivo, il film non si chiude con la presumibile repressione della rivolta e l’inevitabile punizione, bensì quando la contestazione è nel suo pieno svolgimento, in occasione della festa della scuola, fra manichini ed esibizioni circensi a sottolineare l’impasse espressiva di un sistema adulto messo alla berlina una volta per tutte, coi ragazzi che ancora marciano sui tetti come esaltati padroni del mondo, in fuga per i tetti del collegio verso un immaginario mondo di libertà, finalmente liberati da quella piccola rivoluzione, con il pubblico che è uno di loro.

Sceneggiatura, regia, montaggio e scenografia del regista stesso, fotografia di quel Boris Kaufman che era il fratello di Dziga Vertov, musica di Maurice Jaubert, Zero in condotta, restaurato in 4K nel 2017 da Gaumont con il supporto di CNC – Centre national du cinéma et de l’image animée presso i laboratori L’Immagine Ritrovata e L’Image Retrouvée, peraltro a partire dal negativo camera originale e da copie originali nitrato provenienti da Cineteca Italiana, è disponibile in originale con sottotitoli in streaming, anche su Facebook.

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