di Simone Lorenzati

“Adoro Chet Baker. Lo amo quando suona, ma quando canta mi sembra un angelo. Un angelo cupo, solitario, pensoso, rancoroso, dolente, ma abbagliante. Usa il cervello, non la voce. Usa l’anima, non la gola. Sono pazza di lui”.
Mina
Let’s Get Lost, film di Bruce Weber su e con Chet Baker, fin dal suo esordio, ossia nel 1989 al Festival di Venezia, vinse il Premio della Critica e, allora come oggi, non ha mai perso la sua capacità di colpire al cuore dello spettatore.
Chet era l’uomo con la tromba, con un viso d’angelo ed un fascino che non perdonavano. Era il James Dean del jazz, un bianco capace di mettere in ombra tantissimi musicisti di colore, un talento unico che colpì persino Charlie Parker, innamoratosi dello stile di un giovanissimo Chet che si esibiva a New York.
Tocca così all’americano Bruce Weber, abbagliato dallo straordinario personaggio, raccontarlo a trecentosessanta gradi, analizzando tanto il musicista di talento quanto il tossicomane senza speranza, due anime che si fusero nel corpo di un uomo estremamente fragile.
Il risultato che ne scaturisce è un ritratto affascinante, non solamente per chi gli amanti il jazz, che Baker adorano da sempre. Ed ecco che in “Let’s Get Lost” emerge tutto il fermento degli anni Sessanta, quando, al di qua ed al di là dell’Oceano, i beats sovvertivano un mondo di regole preordinate. Lo fece Keruack con il suo romanzo “Sulla strada” così come lo fece Charlie Parker con il Be Bop che, già una decade abbondante prima, spazzò via lo Swing tra gli ascoltatori del jazz. Ed esattamente su quest’onda s’inserisce Chet Baker il quale, però, si fa notare per un lirismo estremamente romantico, suonando il jazz della West Coast, decisamente più morbido e condito da una voce unica, che pareva fatta apposta per ballate struggenti.

Bruce Weber intervista moltissime delle persone che conobbero Baker: dalle sue (numerose) donne – madre compresa – fino ai musicisti ed ai discografici che spesso lavorarono con lui. E la maestria fotografica di Weber viene accentuata dall’utilizzo di uno straordinario bianco e nero insieme al montaggio di immagini di repertorio e a preziosi spezzoni di concerti che esaltano la grandiosità musicale di Chet Baker.
Il regista punta decisamente sui primi piani raccontando la vita del jazzista attraverso le rughe profonde che ne dipingono il viso, senza dimenticare l’ampio spazio concesso al suo tono di voce strascicato. Eppure cambia tutto in un attimo, nell’attimo in cui Chet prende in mano la tromba, facendone emergere l’enorme talento artistico. Il dolore che fa da sottofondo all’opera evapora e, chiunque, rimane rapito dalla voce di Baker mentre canta “Almost Blue” o “My Funny Valentine”.
E poi arrivano i racconti disincantati e amari della madre Vera, dei suoi tre figli con la terza moglie Carol, da cui non ha mai divorziato. Ma anche della cantante jazz, Ruth Young, sua compagna per dieci anni, e della batterista Diane Vavra, quella che, tra alti e bassi, ha resistito con lui fino alla fine. L’uomo Chet è tutto nei chiaroscuri delle sue interviste al regista, fatte con voce fuoricampo e riprese volutamente asimmetriche. Mente spesso, anche al regista. Eppure nemmeno questo pare offuscarlo. Del resto, tutta la lavorazione del film è stata maledettamente complicata, proprio a causa dello stesso protagonista, che spariva o arrivava tardissimo sul set.

Il film si chiude con una straordinaria esibizione di Baker a Cannes, nel 1988, accanto a Diane, che non lo perde di vista un minuto. Le ultime parole che dice a Weber sono che vuole fare ancora tante cose nella vita: comprare una casa, ma pure possedere il pianoforte che non ha mai avuto per comporre musica. Ma il destino è in agguato, e non andrà affatto così. Chet morirà pochissimi giorni la chiusura delle riprese, a soli cinquantotto anni, in modo misterioso, cadendo da una finestra di un hotel di Amsterdam, tra l’altro senza neanche una goccia di eroina in vena. E quando il suo corpo viene rinvenuto, pare una pagina di un romanzo, l’appendice finale di chi ha vissuto con un solo scopo: tra le sue mani stringe, infatti, una tromba, una vita riassunta tra le dita che cullano quello strumento.
La colonna sonora è, ovviamente, sublime quanto parte essenziale dell’opera di Weber, un riassunto degli ultimi mesi di vita di un uomo che ha vissuto perennemente oltre ogni limite,dando luogo ad un film terribilmente oscuro e immerso in una nebbia esistenziale plumbea, senza alcuna redenzione finale.
Un documentario-verità crudo e lontano però dalla mitizzazione e dal facile consenso che crea, tuttavia, un’opera di una bellezza estetica davvero eccelsa e dal contenuto profondo fino alle, citate, estreme conseguenze.
Assistiamo, così, ad una lenta discesa verso il degrado fisico e psicologico di un artista che, comunque, grazie anche alla sua voce esile “aggrappata a un filo di acerba tristezza” insieme al suo fraseggio minimale, gentile, sempre sul filo dal “frantumarsi in mille rivoli di note fragili come cristalli”, ha saputo elevare la sua condizione di emarginato fino a quella di stella artistica di primaria grandezza, facendo coincidere la sua vita con la sua arte.

Film a dir poco incantevole e davvero commovente che racconta le cadute e le rinascite di Baker, in primis la rissa a San Francisco in cui perse, per qualche cazzotto, tutti i denti, cosa che lo costrinse a reimparare a suonare la tromba sostanzialmente da zero.
Di acqua sotto i ponti ne era passata moltissima da quando, insieme ad un’altra leggenda bianca del cool jazz, ossia il baritonista Gerry Mulligan, rivoluzionava la storia della musica afroamericana presentandosi con un quartetto di soli fiati e ritmica, senza il pianoforte o la chitarra ad accompagnare con gli accordi.
Cosa non passò, non passa, e non passerà mai, tuttavia, è la magnificenza di Chet Baker. L’angelo bianco che sussurrava al microfono e che accarezzava la tromba.
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