di Fabrizio Spurio
«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.»

Con queste parole viene presentata al lettore Hill House, nel romanzo “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson pubblicato nel 1959.
Nel 1963 il regista Robert Wise trasforma Hill House in Villa Craine, la casa più infestata d’America. Uno scienziato, il dottor Markway (Richard Johnson), decide di studiare i fenomeni che si manifestano all’interno della villa. Lo accompagneranno tre persone: Eleanor “Nora” Lance (Julie Harris), Theodora (Claire Bloom), due donne sensitive, e Luke Sanderson (Russ Tamblyn), nipote dell’attuale proprietaria della casa. Il dottor Markway spera, tramite i poteri di Nora e Theodora, di stimolare le forze occulte della casa. È inevitabile notare come tra le due donne scivoli una sorta di corrente, un accenno ad un lesbismo serpeggiante: Theo che si offre di pettinare i capelli di Nora, la quale sembra sottrarsi più per la stanchezza fisica che per un vero e proprio rifiuto delle avances dell’amica. Anche perché, in seguito, non avrà problemi a dormire nello stesso letto di Theo. L’attrazione fra le due donne è però tenuta a freno da una sorta di incapacità interpretativa di Nora.
Wise ci presenta la Villa attraverso gli occhi di Nora: la costruzione è imponente, sembra non avere fine. Addirittura l’inquadratura in Panavision sembra non riuscire a contenerla completamente. La Villa ha troppe finestre, troppe stanze e sembra impossibile la creazione di una piantina mentale interna, per potersi orientare. Ma è questo che la casa vuole prima di tutto: disorientare. Creare una sorta di spaesamento che da fisico possa diventare mentale, così da poter sottomettere chi si aggira tra le sue mura. E la casa (e il regista) utilizzerà tutti i mezzi per creare il terrore.

Wise, memore dell’insegnamento di Val Lewton e Jaques Tourneur (autori de Il Bacio della Pantera del 1942), maestri del cinema horror suggerito, userà il comparto tecnico per materializzare le presenze che si agitano nella Villa. La fotografia in bianco e nero di Nicholas Musuraca crea le atmosfere giuste sfruttando i contrasti tra le ombre e le luci.
Un aspetto importante del film è il sonoro. Durante la notte Theo e Nora sono assediate nella loro camera da letto dai rumori che si rincorrono nei corridoi. Suoni di passi pesanti e lamenti di bambini. La macchina da presa le circonda da ogni angolazione della stanza. L’utilizzo di lenti grandangolo, distorcendo di poco l’immagine, contribuisce a creare una sorta di perturbante dell’animo umano. Gli ambienti sembrano essere normali, ma c’è sempre un particolare che stona, che disturba. Nora cammina in un corridoio, e la macchina da presa si avventa su lei, con un’inquadratura tremolante e violenta.

La segue mentre si sporge da un balcone, come se, con la sua semplice presenza, voglia spingerla oltre il parapetto.
Le ombre si addensano intorno al personaggio, facendo svanire l’ambiente e, di fatto, isolato dagli altri precipitandolo nel buio. Solo in una sequenza possiamo vedere gli effetti di questa forza: il legno di una porta si deforma, sotto la spinta potente dell’entità che vuole entrare nella stanza dove sono chiusi Nora e gli altri.
Non vediamo mai veramente il mostro, il fantasma, la causa di tanto orrore. Perché la vera causa è davanti ai nostri occhi: è Villa Craine il mostro. Un vero e proprio personaggio, costruito dal regista, sempre presente e incombente. Più volte Nora dichiara, nei suoi pensieri, che la Villa la osserva, la spia e la desidera. Le finestre della casa sono occhi con cui vede tutto e tutti. La casa sa in ogni momento dove sono i personaggi, e gioca con loro. Si diverte a confonderli, a gettarli nel caos con le sue porte decentrate, che tendono a chiudersi da sole; con le sue geometrie assenti, muri privi di angoli retti, ma sempre inclinati tra loro. Impossibile orientarsi in questa Villa dalle stanze che sembrano infinite e dai corridoi labirintici. Basta svoltare un angolo per perdersi, forse per sempre, dentro questa Villa stregata.

Se questa fosse veramente una casa stregata…
Perché il discorso potrebbe essere del tutto fuorviante. Siamo veramente sicuri che Villa Craine sia stregata? Oppure è tutto immaginazione?
In una sequenza il dottor Markway spiega che sia Nora, sia Theodora sono state scelte per le loro potenti facoltà mentali. Descrive anche un episodio che vede Nora coinvolta quando era bambina: la sua casa fu bersaglio di una vera e propria pioggia di pietre, inspiegabile e confermata da numerosi testimoni. In quel momento Nora nega decisamente l’episodio, ma ormai per lo spettatore è chiaro che lei potrebbe avere doti telecinetiche sovrumane. Come fa notare il racconto del professore, la pioggia di pietre denota una forza enorme dei poteri di Nora, tanto da poter anche, tra le altre cose, deformare il legno di una porta…
E quindi nasce la domanda: i fantasmi di Villa Craine sono forse scaturiti dalla mente di Nora? Di solito queste manifestazioni prendono corpo inconsciamente a seguito di forti traumi o stress. E in effetti scopriamo che Nora è tormentata dal ricordo della malattia mortale della madre. Per anni ha dovuto prendersi cura della donna malata, sacrificando per questo la sua vita. E confessa, in una scena, di essersi rifiutata di accorrere ai richiami della madre il giorno in cui è morta. Nora porta in sé il senso di colpa per aver preso quella drammatica decisione. La vita di Nora da quel momento è costretta in una convivenza forzata con la famiglia della sorella, dalla quale vuole separarsi. Quando le giunge l’invito per Villa Craine, a Nora si spalanca un futuro di libertà e possibilità. Dal momento in cui giunge nella Villa il suo unico desiderio è rimanervi. Va notato che proprio lei è la prima ad arrivare nella casa. Quindi di fatto potrebbe essere la sua mente la miccia che fa esplodere le manifestazioni della casa.

Inoltre Nora, negando fermamente di possedere tali poteri, non può e non vuole nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi che sia lei la causa di tutto l’orrore che si scatena nella Villa. In questo senso si potrebbe anche pensare che, in realtà, la Villa non sia di per sé maledetta, ma solamente una sorta di antenna ricevente, che convoglia dentro le sue mura tutte le esperienze extrasensoriali di chi negli anni l’ha abitata. E forse sono proprio le manifestazioni della mente di Nora, che si scontrano tra la voglia di libertà e il rimorso del suo gesto verso la madre. Se è così, si tratta dunque di un conflitto che deflagra al di fuori del suo cervello e si proietta tra le mura della Villa. In effetti, tutte le volte che le “apparizioni” si manifestano c’è sempre Nora presente. In qualche modo sembra essere lei stessa ad orchestrare le azioni degli altri.
Sicuramente la storia della Villa maledetta serve da catalizzatore per la mente già fragile di Nora, una mente pronta a cedere da un momento all’altro, simboleggiata dalla scala a chiocciola di ferro nella biblioteca: una scala pericolante, pronta a crollare all’improvviso, protagonista di una scena di forte tensione in cui proprio Nora decide, spinta dalla Villa, a salire la scala. Ad ogni passo la struttura traballa, i chiodi sembrano cedere e sfilarsi dal muro, come ineluttabilmente cede anche la mente di Nora. Il suo desiderio di rimanere a Villa Craine diventa immanente, e la porterà a suicidarsi pur di non abbandonare la casa; pur di diventare qualcosa che fino ad allora non è mai stata: una persona viva, reale, indipendente. E lo diventerà proprio nel momento in cui, morendo, entrerà a far parte delle anime che vivono, ormai morte, all’interno di Villa Craine. Scoprire ed assaporare profondamente la vita proprio nel momento in cui si perde quella vita.

Il film ha avuto un pallido remake nel 1999: Haunting – Presenze, di Jan De Bont. Un prodotto che ha preferito puntare sulla spettacolarità degli effetti in CGI (Computer-Generated Imagery), cancellando quanto c’era di suggestivo nella pellicola originale.
wow, mi manca! da vedere!
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