L’uomo che vendette la sua pelle, di Kaouther Ben Hania (2020)

di Andrea Lilli –

Fanno strani scherzi, le parole del cuore. Per un “Ti amo!” perdiamo la testa, sfidiamo la sorte, giriamo il mondo quanto è tondo, ci giochiamo corpo e anima, non abbiamo più dubbi: puntiamo tutto lì, su quel punto esclamativo.

Quando in treno la bella Abeer cede all’istinto e gli confessa di amarlo, Sam non si contiene dalla gioia. “Amici”, grida euforico agli sconosciuti passeggeri, “Signore e signori, è la rivoluzione! La libertà è nostra, siamo liberi! Io amo questa donna, c’è uno sceicco fra voi che può sposarci?”. No. C’è invece un idiota invidioso, una spia che riprende la scena col cellulare; e per quelle parole così sovversive Sam Ali va in galera.

La Siria nel 2011 è all’inizio di una guerra civile devastante che non riuscirà a cacciare il dittatore Assad, ma intanto è l’innocente Sam che deve sparire, scappare in Libano di nascosto. Ce la fa, ora è un profugo a Beirut, s’arrangia lavorando in un allevamento di polli, mentre Abeer si trasferisce a Bruxelles con l’infido Ziad, un ‘buon partito’ sposato per convenienza. Sam e Abeer restano in contatto via Skype. Come raggiungerla, riacchiapparla, come oltrepassare i confini europei, invalicabili dai comuni mortali, però accessibili alle merci? Semplice: cambiando status, diventando una merce. Un oggetto vendibile, fatturabile, e quindi esportabile, con tanto di visto sulla bolla d’accompagnamento.

La regista Kaouther Ben Hania ha basato il film su una singolare esperienza museale. Era nel 2012 al Louvre, dove l’artista belga Wim Delvoye teneva una retrospettiva. Costui è uno di quei lucidi protagonisti del mercato dell’arte contemporanea che più sorprendono e scandalizzano e più fatturano, e più fatturano più diventano celebri, finché non si capisce più se le quotazioni vertiginose delle loro opere, quali che siano basta che ci sia la firma autenticata, conseguano al genio artistico o al fiuto commerciale, dell’artista o degli speculatori che investono in “arte”.

Ben Hania rimase impressionata dalla visione dell’opera d’arte vivente Tim (2006-2008): Delvoye esibiva al Louvre la schiena di un uomo, tale Tim Steiner, che seduto su una poltrona senza maglietta mostrava un grande tatuaggio, disegnato dall’artista nel 2006. Praticamente un dipinto indelebile su tela umana (prima Delvoye usava cotiche di maiali), venduto ad un collezionista nel 2008, che è tuttora itinerante. Tim aveva incassato un terzo del prezzo di vendita della sua pelle, ma per contratto era (è) tenuto ad esibirsi seduto nelle gallerie o nei musei, almeno tre mesi all’anno, per tutta la vita. Alla sua morte, secondo gli accordi, la pelle tatuata verrà conservata e incorniciata, in modo che il proprietario di turno potrà aggiungerla alla sua collezione di opere d’arte. O rivenderla, ovviamente.

Kaouther Ben Hania è tunisina e ha osservato da vicino la Primavera araba, quel terremoto politico che tra il 2010 e il 2011 fece tremare, e in diversi casi crollare, i governi dell’Africa di lingua araba, in particolare dei Paesi affacciati sul Mediterraneo. In Siria è finita peggio che in Tunisia: la ribellione alla dinastia Assad è stata soffocata nel sangue, le città rivoltose bombardate senza alcuno scrupolo (vedere il film Alla mia piccola Sama, 2019). Da allora milioni di siriani sono costretti a fuggire altrove, ma la ricca e vicina Europa non è tra le mete consentite dagli accordi internazionali e viene vista come un Eden impossibile da raggiungere, se non avventurandosi in viaggi clandestini, costosi, troppo rischiosi.

L’intuizione della regista, dopo la visita al Louvre e durante la repressione della Primavera araba, fu di mettere in scena un incontro/scontro fertile tra due mondi apparentemente agli antipodi e non comunicanti, entrambi chiusi, esclusivi: la disperazione dei rifugiati e l’avidità dei mercanti d’arte. Il cinismo scaltro di un Wim Delvoye (che nel film interpreta un cameo) si sposta tal quale nel personaggio-fotocopia Jeffrey Godefroy (l’attore belga Koen De Bouw), mentre lo svizzero Tim Steiner, che si è venduto la pelle nella realtà, diventa nella finzione il siriano Sam Ali.

Pancia piena e pancia vuota s’incontrano dunque a Beirut, al buffet di un vernissage. Sam si è imbucato nella galleria d’arte attratto dall’allestimento per lui più comprensibile: quello commestibile. Troppo diverso dagli invitati, l’intruso viene intercettato: prima dalla solerte assistente Soraya (una fredda ma non troppo Monica Bellucci), che vuole buttarlo fuori; poi dall’artista, che invece lo trattiene. Sam gli serve. Lo compra.

Sam non ha nulla da perdere, ormai. Delle critiche se ne infischia. Solo i più ottusi dei suoi parenti o i pregiudizi dei connazionali possono accusarlo di prostituirsi, di svendere il proprio onore, e con quello la dignità di tutti i rifugiati, i perseguitati, gli oppressi. Vende la propria pelle non tanto per denaro, ma per salvare ciò che gli resta di veramente prezioso nella vita: l’amore per e di Abeer, le braci sono ancora ardenti tra le ceneri della sua vita coniugale con Ziad a Bruxelles. Più che di (tanti) soldi, Sam ha bisogno di vederla in Belgio, ha un’assoluta necessità del visto Schengen per spostarsi libero – in quanto merce, sì, ma che importa? – in Europa. E Jeffrey gliene fa avere due, di visti: uno ordinario sul passaporto siriano, e uno gigante tatuato sull’intera schiena. Perché è quella l’opera d’arte che ha immaginato, il capolavoro da esibire nei musei e nelle gallerie, poi da vendere all’asta per milioni di euro.

Non era facile interpretare il personaggio di Sam: impulsivo ma sarcastico, tormentato ma determinato, esitante ma tenace, lucido ma passionale. Nella scrittura del film, un carattere complesso e spesso contraddittorio. L’esordiente Yahya Mahayni (una carriera da avvocato ormai alle spalle, premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile alla 77. Mostra di Venezia) non solo ha vinto la sfida: in ogni scena ha aggiunto una tensione emotiva generosa che non teme mai l’occhio della camera, con un’aderenza al ruolo totale, ammirevole, difficilmente rintracciabile nei più navigati professionisti della cinepresa. L’estrema incertezza del destino di Sam Ali non merita che venga rivelato qui il finale imprevisto della storia.

Il maggior pregio del film è quello di mantenere un certo distacco ironico dal contesto delle vicende narrate, per quanto tragico sia quel contesto. Insomma, di non cedere mai al patetico. Notevole il contributo di Christopher Aoun sulle luci, i colori, i punti di ripresa. Un lavoro quasi sperimentale, talvolta lezioso, troppo insistito su certi particolari (i giochi di specchi, i movimenti del gatto ad inizio e fine film; i primissimi piani sull’ago del tatuatore), ma sicuramente accuratissimo.

Memorabile la scena in cui, nella sala d’aste, la tela/Sam si volge e scende dal palco. Un dannato solo contro tanti privilegiati, che si toglie lo sfizio di beffarsi dei loro pregiudizi. Ottima la prova degli altri attori, tra cui una Monica Bellucci irrigidita dal ruolo, sapientemente orchestrati dalla regista. Kaouther Ben Hania, dopo La bella e le bestie (Beauty and the Dogs, 2017) e questa storica nomination per l’Oscar al miglior film internazionale, si può ormai considerare una solida esponente di punta del nuovo cinema magrebino.

7.10.2021


  • In sala dal 7 ottobre

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