Meshes of the Afternoon, di Maya Deren (1943)

di Roberta Lamonica

La chiave dei campi

Una finestra al centro del dipinto incornicia un paesaggio di campagna. Il prato, in primo piano, sale con una leggera pendenza da sinistra. Dal pendio spuntano alcuni alberi e cespugli. Il vetro inferiore della finestra, che dà sul paesaggio, è stato infranto. Le schegge appena infrante cadono sul pavimento interno della stanza. Sui vetri ancora sospesi nell’aria si vedono frammenti dello stesso paesaggio dipinto al di là della finestra. Due tende sono sospese ai lati della finestra e la incorniciano lateralmente.”

(René Magritte, ‘La chiave dei campi’)

Cosa si cela tra le maglie del pomeriggio assolato della donna che raccoglie un papavero adagiato sulla strada da una mano senza corpo? E chi è l’uomo che la donna riesce appena a riconoscere prima che sparisca dietro l’angolo? Una mano, dei piedi che incedono con grazia e molle indugio, passo misurato, gambe coperte da pantaloni e sandali maschili, e un’ombra dalle forme femminili e morbide e dai capelli arruffati. Aver visto quell’uomo allontanarsi la spinge ad annusare quel fiore aperto, pronto, prima di salire le scale che portano alla porta di una casa familiare ma in qualche modo anche estranea.

Meshes of the Afternoon – locandina

Forse doveva incontrarlo lì quell’uomo: la donna dapprima bussa, invano, e poi usa la chiave per aprire la porta della casa. Ma prima di riuscirvi, la chiave cade dalle scale e sembra che il tempo tra uno scalino e l’altro sia dilatato all’infinito. La donna alla fine entra, vede del pane con un coltello sul tavolo vicino a una tazza di tè, un telefono la cui cornetta è fuori posto, dei fogli di giornale sul pavimento; sale le scale che portano a una camera da cui proviene la musica di un grammofono. Una tenda scura è mossa dalla brezza e sembra danzi, viva, al suono della musica. La donna spegne il grammofono, scende al piano di sotto, si accomoda sulla poltrona che affaccia sull’esterno e la strada, appoggia il fiore sul grembo, accarezza mollemente il suo corpo e si addormenta.

Maya Deren

Una donna sola che vaga, anima dispersa e ripetutamente proiettata fuori di sé, il cui inconscio elabora una breve esperienza fra le reti di un pomeriggio che risulta determinante per la protagonista.

Maya Deren, regista americana di origine ucraina, firma insieme all’allora marito Alexander Hammid il suo primo seminale film, “Meshes of the afternoon” (1943), prodigio che strizza l’occhio al surrealismo di Dalí e Buñuel – oggi inserito nella lista dei 100 film americani migliori di sempre, e al primo posto come cortometraggio e film diretto da una donna – e capolavoro della nuova avanguardia statunitense, di quell’underground che rimaneva orgogliosamente indipendente dal gusto hollywoodiano più commerciale che stava imponendosi sulla scena cinematografica. “Un film di Hollywood”, campeggia sui titoli di testa, ma è palese l’intento ironico della Deren, e per il fatto che Hollywood era un luogo di uomini per uomini, e per il fatto che il cinema sperimentale non trovava spazio lì dove le produzioni iniziavano a contare su grandi investimenti.

Qualche centinaio di dollari di budget, la Deren e Hammid come (unici) interpreti, effetti speciali casalinghi (il braccio che appoggia il fiore sulla strada all’inizio del film, per dirne uno) ma tanta, tantissima arte e innovazione anche di montaggio (jump cut su tutti) per questo cortometraggio, poco più di 14 minuti, senza il quale capolavori di Lynch come “Mulholland Drive” e “Lost Highway” forse non sarebbero mai esistiti. Il corto ripropone una scena che molti hanno sognato, quella in cui si insegue qualcosa o qualcuno senza mai riuscire a raggiungerlo. Qualcuno che è importante, familiare ma che per qualche ragione fa paura e crea angoscia e ansia.

la strada

Un senso del perturbante domina il film, tanto da rendere oppressivo e claustrofobico l’intero ambiente domestico evocato: l’Unheimlich freudiano, infatti, che sorge dalla proiezione di paure e desideri inconsci sull’ambiente circostante e sulle persone con le quali si viene in contatto, trova qui espressione compiuta. Per questo film che si apre a tantissime interpretazioni, si è parlato di psicodramma da camera strutturato sulla descrizione dei conflitti interiori che agitano la psiche della donna, con i suoi riferimenti al mito e al surrealismo. Qualche maligno ha persino sarcasticamente suggerito che si trattasse del racconto della luna di miele tra Deren e Hammid…

L’iconica figura incappucciata

Dunque l’azione si sviluppa intorno ad un appuntamento segreto mancato da due amanti, secondo una struttura narrativa a spirale costruita sulla ripetizione differenziale della stessa sequenza che si conclude con un finale doppio e ambiguo. Fin dalla prima immagine del cortometraggio sembra di essere catapultati in una dimensione onirica, grazie anche all’ipnotica colonna sonora (composta qualche anno più tardi da Teiji Ito, terzo marito della regista). Come in un tipico psicodramma, “Meshes of the Afternoon” attraversa il tema del desiderio e della perdita in uno spazio incerto, quello delle emozioni e della loro elaborazione, all’interno del quale i confini tra reale e immaginario, tra animato e inanimato si confondono e persino gli oggetti, usati con una valenza simbolica sempre differente, contribuiscono all’atmosfera di confusione, incertezza e disorientamento, e acquisiscono un peso simbolico e metonimico coerente con la crisi psichica della donna protagonista.

Uno dei doppi della protagonista

“La forma rituale tratta l’essere umano non come fonte dell’azione drammatica, ma come elemento alquanto spersonalizzato in un insieme drammatico.”

(Deren, 1946)

La ripetizione rituale della stessa sequenza, l’uso simbolico e ripetuto degli stessi oggetti, la produzione di doppi e la capacità di esteriorizzarli è il pilastro su cui poggia “Meshes of the Afternoon”. La presenza della chiave e la sua successiva ‘produzione’ dalla bocca dei doppi della protagonista ne è compiuto esempio. La chiave della porta della casa, dell’accesso alla propria femminilità, anche erotica, dono della propria arte, della propria visione interiore, apre pericolosamente la porta del subconscio, così compromettendo l’interezza della propria identità e svelando un’intimità apparentemente fragilissima e fino ad allora protetta. Alla chiave che apre, in una sequenza si sostituisce un coltello, simbolo fallico per eccellenza, che da essa si plasma, e che rimpiazza. E così anche il motivo del riflesso speculare e del gemello – la figura inquietante vestita di nero del Doppelgänger, con uno specchio al posto del viso, il ‘triste mietitore’, costituisce un ritornello metaforico importante per sottolineare il focus sull’identità e la riflessione. I passi del personaggio incappucciato vengono tracciati e ripercorsi dall’uomo e dalla donna in quella che sembra realtà, ma si rivela un sogno nel sogno. Prima del colpo di scena finale, la donna colpisce il volto a specchio della figura incappucciata, sul quale vede solo il riflesso di se stessa e che poi si trasforma nell’uomo che vuole svegliarla dall’incubo che sta vivendo.

Il papavero e la sua simbologia

Tutto ciò sembra essere un indicatore del suo sentirsi identificata come prodotto di una lettura maschile del mondo da cui vuole affrancarsi, ma dal quale sembra non riuscire a sfuggire. Quando lo specchio va in frantumi e i frammenti si adagiano su una spiaggia e si disperdono nelle onde del mare, ci si rende conto che anche l’immagine pacificatrice dell’uomo salvifico è letta dalla donna come un tentativo di sopprimere l’affermazione della sua identità femminile. E solo tramite la morte autoinflitta, tramite l’autodeterminazione del proprio percorso esistenziale, la protagonista si libera dall’eterno ripetersi del suo incubo. La moltiplicazione del personaggio interpretato da Maya Deren nel corso della diegesi diviene prova lampante dell’incapacità di contenere una soggettività plurima in un singolo corpo, e un senso di disperazione corre per tutto il film mentre la protagonista combatte contro il tempo e lo spazio, respinta e costretta a rivivere momenti precedenti, incapace di cambiare le sue interazioni, in grado solo di guardare.

La chiave

La Maya con gli occhiali da insetto e il coltello in mano della terza sequenza cammina attraverso terreni diversi: il primo passo sulla sabbia, il secondo sul fango, il terzo sull’erba, il quarto sul pavimento, il quinto su un tappeto. I passi di Maya Deren verso il proprio destino, i passi di una donna contro il sistema che la vuole imprigionata nel suo ruolo di subalternità rispetto alla madre primitiva, rispetto all’uomo che la definisce e rispetto all’angoscia che la forza del proprio desiderio le suscita.

Lo sguardo artistico di Maya Deren, il suo essere l’occhio che scruta e interpreta la realtà fantasmatica del mondo narrativo, non solo riesce nell’intento di riscattare il soggetto femminile da una condizione di millenaria subalternità, ma ne conferma anche lo status di soggetto che desidera e che riesce a relativizzare e riconoscere i fantasmi del proprio subconscio attraverso un semplice atto di visione: lo sguardo diviene così veicolo di desiderio e forza salvifica al di fuori dei limiti della diegesi, strutturandosi come patrimonio universale.

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