di Greta Boschetto

Sanatorium pod klepsydra (La clessidra) è un film del 1973 diretto da Wojciech Has, vincitore del Premio della giuria al ventiseiesimo Festival di Cannes, interpretato da Jan Nowicki e Tadeusz Kondrat. È tratto da alcuni racconti visionari di Bruno Schulz.

“Perché ho la sensazione di essere già stato qui? Non conosciamo d’altronde già in anticipo tutti i paesaggi che incontreremo nella nostra vita? Può forse accadere qualcosa di totalmente nuovo?”
Come per molti film con un significato oscuro e un approccio narrativo non tradizionale, la storia al centro di questa pellicola è ingannevolmente semplice e contemporaneamente inafferrabile: un uomo di nome Jozef (Jan Nowicki) va a far visita a suo padre Jakub (Tadeusz Kondrat) in un bizzarro istituto di cura che si presenta però come un luogo in rovina, gotico, coperto di rampicanti, dove scopriremo subito che il tempo non funziona normalmente.

Di lì a poco Jozef scopre, grazie a delle spiegazioni abbastanza confuse del medico fondatore della struttura, Gotard, che il sanatorio esiste in una dimensione “tascabile”, quella in cui il trascorrere del tempo al di fuori non ha alcun effetto su chi vi sta dentro, un mondo nuovo in cui la vita si prolunga in uno spazio-tempo inesistente che colpisce non solo i pazienti ma chiunque vi si addentri.

L’edificio quindi è una sorta di tempio magico che apre le porte a un continuum tra vita e morte, dove il tempo è scandito e confuso dai ricordi e dai sogni dei personaggi, una sorta di rivalsa su “un tempo consumato, consumato da altre persone, un tempo malandato pieno di buchi, come un setaccio” e dove ognuno ha il potere di ripercorrere in maniera illogica la propria esistenza, riattivando il tempo già trascorso e le infinite possibilità del passato.

Jozef si ritrova così a scivolare dentro e fuori dalla sua linea temporale e la realtà, come la struttura narrativa del film, diventa estremamente malleabile e soggettiva. Sebbene Jozef sia sempre mostrato come un adulto, il suo comportamento e le persone intorno lo raffigurano spesso come un bambino pronto a rivivere gli episodi più bizzarri e fantastici della sua infanzia: le avventure di un padre estremamente eccentrico che vive in una soffitta piena di uccelli e di libri e che da giovane fu arrestato per aver avuto “dei sogni proibiti”, le prime ragazze sulle quali aveva fantasticato nella sua fanciullezza e i suoi primi veri amori.

In questa fantasmagoria visiva, colorata come un caleidoscopio, è come se rovistassimo insieme al protagonista in un negozio di curiose antichità, disordinato e fantastico, pieno di detriti di passati dimenticati e accumulati e, come spesso succede nei sogni, se scavi tra le chincaglierie non sai mai cosa potresti trovare.

Grazie a un susseguirsi di sequenze affascinanti e spesso autosufficienti nella loro bellezza barocca e surrealista (impossibile dimenticare i treni quasi tridimensionali con strani personaggi di cera, i soldati zombie, le donne ammiccanti, le maschere piumate, gli elefanti e i rabbini danzanti) e nel loro impatto a volte grottesco a volte più cupo, Wojciech Has (oltre all’intento politico del film che all’epoca causò il suo divieto in Polonia) mette in scena un sogno labirintico, lussureggiante di simboli e metafore, nel quale è bello perdersi senza dover capire per forza ogni passaggio, in una esperienza visiva totalmente appagante grazie anche all’uso magistrale della profondità di campo che rende quasi possibile entrare dentro le inquadrature.

Si vaga da una realtà all’altra senza alcuna logica, da un luogo all’altro senza alcuna idea di come sia avvenuto il passaggio: tutto quello che si sa è che la propria posizione è cambiata e che si è lì, in quel momento esatto, che esiste scardinato da ogni futuro.

Il passato, invece, diventa un gigantesco fantasma di quello che fu e di quello che avrebbe potuto essere.
Tra le mura del sanatorio il tempo non si comporta, ma scorre a prescindere, anche se non in maniera tradizionale e calcolabile. Jozef può solo rivivere il suo passato, non cambiarlo. Può solo fermare la morte di suo padre, non impedirla: può solo ritrovare se stesso per forse comprendersi meglio (e capire anche gli altri).

Ma questa sua resa all’inevitabilità del decadimento (ma non della fine) della vita in senso stretto, del corpo fisico, non è fonte di angoscia: è semplicemente il ciclo della vita, come se niente potesse avere mai fine davvero perché un pezzetto di noi rimarrà sempre nella storia, in un ricordo, in un racconto, in un negozio di antichità, in una soffitta, creando così una continuità che non ci renderà veramente mai morti ma semplicemente dei fantasmi di quello che è stato.

Rispondi