“Heart of a dog”, di Laurie Anderson (2015)

Di Nicole Cherubini

“Is it a pilgrimage?
Towards what?
Which way do we face?
For having me…”

E’ un viaggio, quello che ci invita a fare Laurie Anderson, o almeno una passeggiata tra ricordi, osservazioni, citazioni; attraverso i quali l’artista ci guida con una voce calma, empatica. E come se un solo mezzo espressivo (lungometraggio di finzione, documentario, diario visivo, film d’animazione) non potesse contenere adeguatamente i concetti che Anderson vuole esprimere, l’artista li sceglie tutti; confezionando un lungometraggio fluviale, emozionante ed uguale solo a se stesso.

Contattata dalla piattaforma Arte, interessata a produrre dei documentari su degli artisti, Anderson aveva deciso di dedicare il film al suo rapporto con l’amata cagnetta Lolabelle, precedentemente scomparsa. Nonostante il copioso materiale che la riguardava (foto, filmati, dipinti, ecc), l’artista si è di fatto spinta molto oltre la riflessione sulla perdita e sulla sua elaborazione, lasciando confluire nel film tutta una seria di tematiche e riflessioni, personali e sociali, solo apparentemente slegate tra loro.

Perciò come Lolabelle percepisce il pericolo degli uccelli rapaci che sorvolano le colline, gli americani del post-11 settembre 2001 guardano al cielo non solo come ad uno spazio di libertà, ma di imminente minaccia. E mentre gli animali si servono dei loro sensi per orientarsi nello spazio, noi ci muoviamo in apparente autonomia, fingendo di ignorare le miriadi di telecamere che raccolgono e immagazzinano dati su di noi. Come binari, le osservazioni della regista scorrono parallele alla vita di Lolabelle: la sua nascita, la vecchiaia, la cecità ed infine la malattia.

La prossimità della dipartita di Lolabelle porta la regista ad una serie di considerazioni sulla morte, argomento che non viene però mai trattato in modo tragico: mentre la Anderson cita il Libro Tibetano dei Morti, spiegando come il trapasso sia un’opportunità per l’anima di purificarsi e lasciarsi indietro gli attaccamenti terreni, le immagini si confondono, si liquefanno, in un continuo divenire.

Nonostante la varietà e la profondità delle tematiche trattate, la regista rifugge infatti l’effetto “arty” o la bella inquadratura, utilizzando e mischiando immagini da filmini casalinghi in Super8, video girati con iPhone o telecamere GoPro e disegni animati. Le immagini che lo spettatore si trova davanti, di fatto, non sono state assemblate per “piacere,” ma per sostenere e accompagnare la narrazione. Perché per quanto si tratti di materiale autobiografico, è chiaro l’intento della regista di creare un amalgama coerente, legato da un filo narrativo; una “storia delle storie”.

La stessa Anderson spiega così il suo intento: “In quanto artista ho realizzato musiche, dipinti, installazioni, sculture e opere teatrali. Ma più di ogni altra cosa, sono una cantastorie. La scelta di fare Heart of a Dog è stata un modo per tradurre il mio lavoro in una forma che non avevo mai utilizzato. (…) La questione al centro di Heart of a Dog è “che cosa sono le storie?”. Come vengono realizzate e come vengono raccontate? Lungo tutto il percorso sono stata guidata dallo spirito di David Foster Wallace e dalla sua affermazione “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” è stata il mio mantra”.

Come detto in precedenza, il tema del lutto, nonché dell’assenza, serve all’artista per arrivare al nocciolo dell’esperienza umana: a prescindere dal credo, non è possibile distaccarsi dalla vita se non accettando di lasciare andare i rancori e i patimenti terreni; non c’è trasformazione senza perdono. Così la “transizione” dell’amata Lolabelle diventa un modo per l’artista di separarsi dalla madre: ricercare un ricordo felice che possa ricucire un rapporto lacerato prima dell’ultimo saluto.

Posto che, essendo un lungometraggio che sfugge a una definizione canonica, può essere apprezzato o meno; per chi scrive è quasi stupefacente come la regista riesca a creare empatia con lo spettatore parlando di cani, elaborazione del lutto, filosofia buddista, paranoia post-11 settembre e via discorrendo. La voice over di Anderson, sempre presente, non è mai superflua e didascalica, ma sempre partecipe; sia quando argomenta, sia quando si confessa.

Lou Reed e Lolabelle

Il passaggio da immagini statiche a filmini, a foto o disegni che vengono animati può apparire disorientante per lo spettatore, tuttavia è un approccio che risulta coerente per un film basato sul flusso di coscienza. E tornando a Foster Wallace forse è proprio colui che non appare quasi mai, il fantasma d’amore: Lou Reed, al cui “magnificent spirit” il film è dedicato, entra solo sui titoli di coda, con la sua “Turning time around” E con la sua voce e l’immagine di lui abbracciato a Lolabelle finisce (?) questo viaggio, le cui tracce lasciano però molti spunti e riflessioni ancora da percorrere.

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