I Fratelli De Filippo, di Sergio Rubini (2021)

di Laura Pozzi

E’ stato presentato all’ultimo festival di Roma come evento speciale, ha visto luce nelle sale per soli tre giorni (13/14/15 dicembre) e stasera dovrà fronteggiare il pubblico di Raiuno che, seduto comodamente in poltrona, potrà gustarlo in prima visione Tv. Una mossa in termini di audience probabilmente azzeccata e forse inevitabile data la natura sottilmente “seriale” del progetto, ma assistendo ai vari trailer pubblicitari che in questi giorni impazzano sulla rete nazionale restiamo convinti che I fratelli De Filippo ultima fatica cinematografica firmata da Sergio Rubini avrebbe meritato destino migliore. Questo perché si rischia facilmente di confonderlo con una fiction (pur non disdegnandone i canoni) depotenziando il valore artistico di un’opera che solo la magia del grande schermo può realmente esaltare. Tuttavia non bisogna dimenticare che il cinema è anche industria e cavalcare l’impetuosa onda “partenopea” del momento darà sicuramente i suoi frutti. In parte ce lo auguriamo, soprattutto per disarmare l’ennesima isteria collettiva di stampo giornalistico, che fino a poco tempo fa gongolava nel fomentare l’immaginaria rivalità con Qui rido io di Mario Martone. Certo la similitudine tra le due pellicole è innegabile ma è anche giusto sottolineare come Rubini abbia annunciato il suo progetto (studiato e costruito per sette anni) molto tempo prima del collega napoletano.

Tra l’altro essendo entrambi prodotti Rai Cinema, avrebbe davvero poco senso alimentare una diatriba scomoda e alquanto surreale. E’ sicuramente più istruttivo e cristallino considerarle due opere speculari, più interessate a interagire che ad ostacolarsi. A differenza di Martone, il regista pugliese non si lascia tiranneggiare dall’imponente figura di Eduardo Scarpetta, ne tantomeno sedurre. L’ingombrante presenza del grande attore e commediografo napoletano (interpretato da un convincente Giancarlo Giannini) resta sullo sfondo, mentre i tre fratelli mai riconosciuti e successivamente diseredati  decidono tra mille controversie di unire i loro talenti, incanalare le energie, accantonare temporaneamente le diversità caratteriali per dar vita a una compagnia tutta loro in grado di rivoluzionare il teatro del Novecento. Alla base del progetto c’è la grande passione di Rubini per il teatro e in particolar modo per Eduardo e  per le sofferte vicissitudini familiari a cui fu sottoposto insieme a Titina e Peppino durante l’adolescenza. Tre emarginati al cospetto di uno “zio padrone” idolatrato, applaudito, venerato, geniale quanto crudele, capace di negargli un cognome e quindi un futuro, di estrometterli da qualsiasi beneficio economico e di infliggere laceranti ferite emotive. Una discriminazione che “marchia” irrimediabilmente i tre fratelli, ma tuttavia ne consolida quell’irrefrenabile voglia di riscatto che unita al talento li collocherà nell’olimpo dei grandi. La forza e la “tenuta” di questo film che contro ogni pronostico riesce a non perdere colpi e a coinvolgere per 142 minuti risiede proprio nella ferma volontà di non arrendersi mai, di non cedere o sottomettersi a un destino già scritto da una penna avida e ingrata.

Rubini lavora sulla sconfinata giovinezza di tre giganti del nostro teatro, azionando un necessario ed efficace  rewind in grado di restituire una visione alternativa e più umana della loro grandezza. Per farlo si affida a tre formidabili sconosciuti capaci di garantire una neutralità e una freschezza difficilmente riscontrabile in attori più “consumati”. Mario Autore nei panni di Eduardo, Domenico Pinelli in quelli di Peppino e Anna Ferraioli Ravel in quelli di Titina regalano una performance appassionata ed emozionante, frutto di una formazione artistica prevalentemente teatrale e priva di mestiere. La macchina da presa cattura la loro giovinezza, ne respira la contagiosa vitalità filmando la straordinaria duttilità con la quale riescono ad entrare in personaggi “enormi” che come confessa Mario Autore non si possono imitare, ma soltanto evocare cercando di evidenziarne i tratti salienti. Attorno a loro assiste e si muove un parterre di eccezionali comprimari tra cui Marisa Laurito, Vincenzo Salemme, Biagio Izzo, Marianna Fontana e la splendida e dolente Susy Del Giudice nei panni di Luisa De Filippo.  

La storia viene rievocata attraverso un lungo flashback, elaborato durante la notte di Natale del 1931. Eduardo, Peppino e Titina sono un trio ormai collaudato (grazie anche alla miracolosa rinuncia del principe De Curtis) e pronto ad andare in scena con Natale in casa Cupiello al teatro Kursaal di Napoli. Un improvviso ritorno al passato ce li mostra bambini, ripercorrendo tutti gli eventi che li hanno portati all’incredibile ascesa. Eduardo e Titina vivono con la madre Luisa, mentre Peppino viene spedito in campagna e affidato ad una balia. In comune un padre fervente oppositore del quel ruolo indigesto, ma artefice di quella passione che riscriverà il loro destino. Rubini sceglie di raccontare il suo romanzo di formazione attraverso una narrazione asciutta e lineare. Nessun giudizio, nessuna celebrazione e nessuna smania biopic. La storia che ci viene mostrata è una storia di povera gente intrisa di ingiustizia e dolore. Miseria, povertà, emarginazione sono le piaghe che deturpano la giovinezza dei tre fratelli, in aggiunta ai violenti scontri tra l’intraprendente Eduardo e l’eterno secondo Peppino. Una rivalità incandescente, più volte raggelata dalla sferzante personalità di Titina. Il tutto sullo sfondo di una Napoli sontuosa e popolare magnificamente fotografata e ricostruita attraverso un tributo che è anche un sentito omaggio al nostro patrimonio artistico.  La storia termina nel 1944 all’apice del successo, ma anche di una separazione che di lì a breve sarà inevitabile e che da spettatori ci auguriamo di vedere. Sì perché quel the end ha fortunatamente ben poco di definitivo come si evince da alcune dichiarazioni dello stesso Rubini, particolarmente entusiasta nel perseguire un progetto che non teme giudizi nel suo essere audacemente pop.

 

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