Chi lavora è perduto (In capo al mondo) – L’esordio di Tinto Brass prima dell’eros

di Greta Boschetto

“Mondo boia, mondo can, che ernia per un tocco di pan. Mondo can, mondo boia, si crepa di fam o si crepa di noia.”

Chi lavora è perduto (In capo al mondo) è un film di Tinto Brass del 1963 con Sady Rebbot, Franco Arcalli, Pascale Audret e Tino Buazzelli. È stato selezionato tra i 100 film italiani da salvare.

Tinto Brass, all’anagrafe Giovanni Brass, è conosciuto da tutti come il papà dell’erotismo italiano, il maestro dell’eros: ma chi era Tinto al suo esordio?
Nato a Milano, adottato da Venezia e studioso di cinema a Parigi, inizia a lavorare alla Cinémathèque Français, alla quale sarà sempre debitore per la sua formazione cinematografica. Nella capitale francese inizia a frequentare Rossellini (suo maestro di cinema ma soprattutto di vita, come ha detto più volte Brass stesso) e molti astri nascenti ed esponenti della Nouvelle Vague, da Chabrol e Godard (che in questa sua prima pellicola omaggerà esplicitamente in vari modi, dall’uso del montaggio a una locandina di “Vivre sa vie” inquadrata in una scena).


Le influenze di entrambe le scuole, quella di Rossellini e quella di Godard, sono visibili da subito nella sua prima regia di “Chi lavora è perduto”, film anarchico e contro il potere.
Bonifacio B, alter ego del regista sia come età anagrafica ma soprattutto nei pensieri, è un ragazzo sulla trentina in (forse) odor di integrazione sociale, sta girovagando per le strade assolate di Venezia, in un giorno d’estate. È un grafico e ha appena fatto un colloquio di lavoro: inizialmente si dice tra sé e sé “Forza che ce la fai, Bonifacio!”, ma poi altrettanto improvvisamente si domanda “Ma a far cosa? E se poi non è un lavoro che fa per me, che senso avrebbe?”

Inizia così una specie di road movie a piedi, un flusso di coscienza continuo del protagonista che, cercando di trovare una risposta alla domanda se accettare o meno un lavoro in una grande azienda che sì, gli darebbe di che campare ma rischierebbe di farlo diventare un alienato, si pone altri quesiti sulla natura umana, sulla morte, sulla chiesa, sulla società.
Intorno a lui e ai suoi pensieri tutti si muovono veloci come api che ronzano, inconsapevolmente intente a tenere in piedi una società sfiancante, che sembra dare ma che in realtà toglie tutto, tempo barattato con del denaro, con una posizione sociale.

E chi non vuole? “Il mondo non è per i mona, Bonifacio!” e durante il suo viaggio interiore e per la città, si mischiano ricordi (la sua infanzia e l’educazione impartitagli dal padre, severo e reazionario), gli amici anarchici finiti in manicomio per la loro incapacità di adattarsi alla società in cui vivono (forse proprio come lui), la chiesa che frequentava da piccolo e il prete della parrocchia, troppo affettuoso per essere ricordato con affetto.

“Chi lavora è perduto” è uno dei primi film arrabbiati del cinema italiano del periodo del Boom, dominato da un senso di rivolta e di rifiuto per ogni forma di stabilizzazione sociale e ideologica imposta dallo Stato e dalle istituzioni. La promessa di un posto fisso, di un ruolo accettabile all’interno della società, vengono visti dal protagonista non come delle promesse ma come una punizione, una vita fatta di fatiche e di accumulo (vi è già una critica al capitalismo che continua a creare bisogni inappagabili) e una condanna all’alienazione.

Il doppio di Brass si vede impossibilitato nel trarre soddisfazione dall’integrazione socio-politica del tempo, ha un’urgenza di comunicare le sue vere voglie, i suoi desideri, la sua rabbia; “Chi lavora è perduto” è soprattutto un film “contro”, ma con goliardia, che vuole decostruire senza appesantire, scherzandoci su, la classica triade del buoncostume: Dio (preti palesemente pedofili che Bonifacio sogna di buttare nel canale), patria (il lavoro, la leva militare) e famiglia (l’aborto della sua ex-fidanzata, eseguito in Svizzera perché in Italia era ancora illegale).

Ovviamente i giudici dell’ordine costituito, i censori del cinema, non contenti dei temi trattati in questo film, non rimasero a guardare e lo bocciarono per ben due volte alla valutazione finale; approfittando però di una caduta di governo e di un alleggerimento delle maglie della censura, Brass riuscì a cambiare semplicemente il titolo (inizialmente era “In capo al mondo”) senza modificare temi e montaggio e il film riuscì fortunatamente a vedere la luce,

anche se ancora oggi è spesso dimenticato o, peggio ancora, oscurato, forse proprio per la modernità del suo messaggio, mai come ora attuale in un mondo post pandemico, ancora più alienato e sfruttato.

Girato utilizzando spesso il dialetto veneziano, è tutto in bianco e nero tranne che in un solo momento: durante il funerale di un partigiano, le bandiere rosse del PCI sono lasciate a colori, per dare forza all’immagine, alla morte di certi ideali, veri e puri ma forse ormai destinati all’oblio.

Bonifacio B quindi è un anti-eroe vero e proprio, ironico e intelligente (ma non intellettuale) però disilluso, un “malato” di spleen che affronta il mondo a suon di battute, a volte anche di luoghi comuni, che cerca in tutti i modi di non farsi schiacciare dalla tristezza e dalla paura di un avvenire segnato: si immagina di avere altre possibilità, come quella di diventare un attore o un dirigente di un casa d’appuntamento, oppure come rapinatore di banche, per finire più umilmente come porta-mangime ai piccioni nella cosmopolita piazza San Marco, piena di gente da ogni dove.

Per non farsi schiacciare dall’angoscia della vita moderna Bonifacio scherza su tutto, e anche Tinto insieme a lui, con quell’ironia amara che porterà il regista a chiudere il film con la scritta “Arbeit macht frei”, come se la vita fosse essa stessa un gigantesco lager, una prigione dove attendere una nuova Liberazione.

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