Chaser, di Na Hong-Jin (Corea del Sud, 2008)

di Girolamo Di Noto

Se c’è una qualità che non si può negare al regista coreano Na Hong-jin è quella del coraggio. Ce ne vuole infatti di coraggio, di faccia tosta, di ambizione, soprattutto se si è esordienti, per raccontare, con una durezza inconsueta, una delle storie più raccapriccianti che la Corea del Sud abbia vissuto.

The Chaser si basa sulla storia vera di un brutale serial killer, Yoo Young Chul, che, nella Seoul dei primi anni Duemila, uccise oltre venti persone. Lungi dall’essere solo un thriller, il film è molto più complesso e sfaccettato di quanto si possa pensare e la storia vera rimane in realtà solo un pretesto per esplorare temi più profondi come la banalità del Male, la voragine del senso in cui ci si imbatte quando si è alla ricerca della verità, l’incomprensibilità delle ragioni dell’uomo e delle sue azioni.

The Chaser racconta la storia di Yung-ho (Kim Yaon-seok), un ex poliziotto divenuto protettore di un gruppo di prostitute. Dal carattere schivo e dal temperamento schizoide diventa di cattivo umore quando scopre che molte delle sue ragazze sono sparite dal giro. Scoprirà che un loro cliente comune è in verità un serial killer: la corsa contro il tempo per salvare l’ultima vittima, Mi-jin ( Seo), sarà senza esclusione di colpi.

Truffaut, nell’analizzare da critico cinematografico i film che recensiva, scriveva che nei primi dieci minuti d’un film si trova tutto quello che il regista ha voglia di dire. Applicando questa dichiarazione al film di Na Hong jin, in effetti, possiamo affermare che tutto quello che c’è da mostrare si nota subito chiaramente: una prostituta, un cliente, una strada in salita.

Un ex detective che ha messo in piedi un business a luci rosse. Un serial killer in cerca di prede. Una valigetta, un martello, uno scalpello. L’orrore del sangue, la malvagità che si sottrae al pensiero. È tutto già raccontato nei primi minuti del film: l’assassino è smascherato fin dall’inizio, lo spettatore scopre la verità sin dalle prime scene, eppure il fascino di questo film sta nell’essere riusciti, attraverso uno stile folgorante e imprevedibile, a mantenere alta la tensione perché il regista capovolge il meccanismo del genere: non bisogna trovare l’assassino ma la vittima e soprattutto è necessario trovare le prove, non il criminale per trattenere l’accusato.

Nei thriller classici si insegue l’assassino, si cerca di fermarlo, si cerca in ogni modo di interrompere la scia di sangue. Qui invece l’assassino è stato preso e bisogna far presto e avviare una corsa contro il tempo sia per evitare il rilascio dell’omicida in assenza di prove, sia per salvare l’ultima vittima.

La caccia alla ricerca della ragazza scomparsa è raccontata con una carica adrenalinica esasperata, l’inseguimento alla ricerca della verità viene vissuto dai vari personaggi in modo totalmente diverso e il film è anche un’acuta riflessione sulle molteplici reazioni che l’uomo possa avere nei confronti del Male.

Il serial killer (Ha Jung- Woo) svolge la sua attività da mattatoio come una routine, ha un volto ordinario, non ha un aspetto mostruoso e, quando viene fermato per un casuale incidente, non riesce a trattenere l’impulso di dire la verità, confessa senza troppa resistenza che ha ucciso lui le donne scomparse, si fa beffa dei poliziotti, sa di farla franca, agisce sempre con fredda lucidità.


In opposizione al cattivo non c’è l’eroe buono: l’ex sbirro è un magnaccia, ha un passato da poliziotto corrotto, non è un santo e all’inizio partecipa alla caccia solo per il suo tornaconto. Evolverà nel corso della storia: da cinico uomo d’affari clandestini passerà alla consapevolezza di avere un animo buono.

La caccia per lui rappresenterà una sorta di riscatto, una discesa agli inferi che lo toglierà dalla sua apatia di eterno perdente. Ritrovare la vittima equivale a salvare se stesso.

Il Male però è indecifrabile, avvolge Seoul in una vischiosa condizione di incertezza, è insito nell’essere umano, è occultato tra le pieghe del visibile e soprattutto ha anche facilità di insinuarsi e permanere a causa anche di una società in collasso, dell’incapacità della polizia coreana, concentrata più a tenere a bada l’opinione pubblica che ad arrestare dei criminali.

Come in buona parte dei film coreani anche qui le forze di polizia sono rappresentate nella loro inefficienza. In tal senso il film ha diversi richiami con Memories of murder di Bong Joon-hoo.

È una storia senza vincitori, mette in risalto la difficoltà di scoprire la verità, denuncia, sotto la superficie del thriller poliziesco, le contraddizioni di un Paese, la dabbenaggine delle istituzioni, l’incompetenza delle forze dell’ordine. Se nel film di Bong Joon-hoo si è alla ricerca di un serial killer, qui invece si cerca di salvare ciò che ancora può essere salvato, ma l’intoppo che frena il successo contro il Male è lo stesso: se in Memories of murder il corpo della polizia manca degli uomini necessari per impedire un omicidio perché tutti impegnati a reprimere una rivolta studentesca, in The Chaser le forze dell’ordine sono in gran parte dispiegate per cercare chi ha lanciato escrementi addosso al sindaco della città.

In una Seoul debolmente illuminata da luci smorte, alienante e pericolosa, il protagonista si perde in un dedalo di strade e indizi alla ricerca della verità, si imbatte nell’ottusità dei suoi ex colleghi, da vita ad un’evoluzione che lo porterà da pappone a prendersi cura della bambina della prostituta scomparsa.

The Chaser è un film magnifico, cupo, violento, con una suspense che tiene incollati fino alla fine, che mostra continui colpi di scena.

Regista dal talento cristallino, Na Hong jin mette sul piatto un’opera straniante in cui ad una lotta ardua e implacabile seguono fallimento e frustrazione. Con uno stile iperrealista, inquadrando i personaggi attraverso finestre e finestrini, mettendo in scena dei fotogrammi incorniciati di una bellezza compositiva raggelante, il regista ci offre il ritratto spietato di un Paese viziato e disfunzionale, la parabola discendente di un’umanità senza riscatto, impotente, cui resta solo un urlo di dolore senza voce.

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