L’arte del sogno, di Michel Gondry (2006)

di Nicole Cherubini

Lui incontra Lei. Lui è Stephane, lei è Stephanie (“That’s a perfect match,” chiosa l’amica di lei, quando li presenta). Lui è timido ed impacciato, lei è carina ma difficile da conquistare: insomma, gli elementi di base della rom-com ci sono tutti. Ma se il regista è il poliedrico  Michel Gondry la musica cambia. Conosciuto ai più per il premiatissimo e molto amato “Eternal sunshine of a spotless mind” (in Italia tradotto con l’impietoso “Se mi lasci ti cancello”), Gondry torna a raccontare una storia in cui l’amore e l’attività onirica si incontrano e si (con)fondono. Pur essendo privo di un’ottima sceneggiatura come quella scritta da Kaufman per “Eternal sunshine…,” Gondry decide di riprendere il concept di un video girato anni prima per i Foo Fighters (“Everlong,”del 1997 ) e di farne il soggetto per un lungometraggio. Detto fatto, l’idea di un ragazzo che entra nell’incubo della sua bella per salvarla diventa l’ossatura de “L’arte del sogno.”

Il protagonista, Stephane (Gael Garcia Bernal), è un ragazzo per metà messicano e per metà francese che arriva a Parigi per ricongiungersi alla madre e per cercare lavoro come illustratore. Dotato di una fervida immaginazione, Stephane deve presto scontrarsi con la triste realtà: i suoi lavori sono difficili da collocare (“Che roba è? Noi facciamo calendari con fiori, cuccioli e donne nude!” gli viene detto) e la sua bella vicina (Charlotte Gainsbourg) lo ignora. Sebbene il plot sia semplice, Gondry utilizza il protagonista (suo evidente alter-ego) per far volare la sua vena immaginifica. Infatti, non riuscendo ad adattarsi alla realtà, Stephane si sbizzarrisce nel sogno: si esibisce con i colleghi in una sorta di band alla “Gli aristogatti,” spiega la ricetta per cucinare i sogni in pentola, si vendica del capo per le angherie in ufficio e conquista la sua amata vicina. Tutto bello, insomma, anche troppo, e questo rifugiarsi nella propria fantasia porta Stephane a non saper più distinguere tra sogno e realtà.

Pur non essendo una coppia, i due protagonisti sono dei creativi, e questo li unisce: lui mostra a lei la sua macchina per tornare indietro di un secondo, si divertono con l’”anarchia del cellophane,”discutono di casualità sincronizzata parallela… Quello di Michel Gondry è un amore spesso inespresso e doloroso, ma che si libera tramite nuvole di cotone idrofilo, barchette di feltro, gomitoli che si dipanano e animali di pezza che si animano magicamente. Questi elementi rendono il film vivo e palpitante, smorzando il cuore sofferente di un personaggio che non riesce né ad adattarsi alla vita reale, né a conquistare la persona amata. Questa sofferenza, anche resa esplicita dai dialoghi (“Piangerai per me, quando sarò morto?”), è soppesata da un contorno di personaggi secondari ovviamente sconvenienti, improbabili ed impiccioni. A fare da contraltare all’insicuro Stephane c’è Guy (Alain Chabat), collega gretto ed erotomane, che passa il tempo a raccontare storielle sconce o ad andare per locali vestito da punk per rimorchiare. Completano il quadretto gli altri due colleghi, quotidianamente vessati da Guy, che li chiama affettuosamente (?) coppia di lesbiche.

Ondeggiando tra commedia e dramma, tra le asprezze della vita adulta e la tenerezza di amori ancora non maturi, Gondry sceglie la via più ampia e liberatoria, quella del sogno; dove l’eroe può finalmente cavalcare con la sua bella per poi salpare verso orizzonti infiniti…

Come detto in precedenza, pur non possedendo la tensione drammatica di “Eternal sunshine…,” “L’arte del sogno” resta un film tenero e agrodolce, sicuramente aderente alla filmografia e alla poetica del suo autore. Per chi conosce alcuni titoli di questo regista, è evidente come lui abbia trasposto se stesso in quasi tutti i suoi protagonisti maschili: personaggi tanto creativi ed estrosi quanto insicuri e fragili, soprattutto con le donne. Questa adesione tra regista e personaggio è di fatto diventata una sorta di “marchio,” facile da rintracciare in progetti tra loro molto diversi, come quelli più autobiografici (“Microbo & Gasolina,” 2015) o gli adattamenti letterari (“Mood Indigo-La schiuma dei giorni,” 2013). Ma è sul piano visivo che Gondry lascia il segno, contaminando immagini girate dal vero con disegni animati a mano o con pupazzi animati in stop-motion.

Per quanto il nome di Gondry non figuri tra quelli dei grandi cineasti, la sua è una figura interessante perché trasversale; capace ciò di spostarsi dalla pubblicità al video clip, dal cinema alla serie tv (“Kidding,” con Jim Carrey, del 2018), senza soluzione di continuità. La sua produzione non è di fatto classificabile, ma ha di fatto un’impronta fresca e riconoscibile (come in questo spot https://www.youtube.com/watch?v=Ryk0eny1j0M).

Parlando di videoclip, negli anni ’90 il nostro ha collaborato con alcuni tra i migliori artisti su piazza (Bjork, Massive Attack, Radiohead e Daft Punk per citarne alcuni), firmando dei video ancora oggi iconici nella cultura pop.

Bjork “Hyperballad”
Radiohead “Knives out”
Daft Punk “Around the world”

Per concludere, Gondry è un autore interessante sia per il suo modo ancora “artigianale” di creare immagini, sia per la sua riflessione sulla fragilità maschile, in netto anticipo sui tempi.

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