Vestito per uccidere, di Brian De Palma (Usa/1980)

di Girolamo Di Noto

“Siete davvero sicuri che un pavimento non possa essere anche un soffitto?”.

M. C. Escher

Quando si guarda un film di Brian De Palma si ha la sensazione di entrare in un labirinto di specchi, in un gioco di scatole cinesi. Le folgorazioni visive che il regista lascia ad ogni spettatore si esplicitano in una messa in scena carica di tensione, virtuosismi con la macchina da presa, superfici riflettenti, inganni.

” La forma è il contenuto “: è sempre stato questo il principio che De Palma ha ribadito per definire la sua opera. Vestito per uccidere, film girato all’alba degli anni Ottanta, incarna un’idea di cinema che mette in primo piano la forma, il piacere della messa in scena.

Grande prestigiatore di immagini, De Palma nell’affrontare questo thriller di classe sopraffina, si preoccupa assai poco di truccare gli indizi, di rendere imprevedibile la soluzione dell’intreccio, ma si mostra più interessato a perlustrare le zone enigmatiche dell’inconscio attraverso la bellezza delle inquadrature, i trucchi cinematografici, l’uso sapiente del ralenti, del piano- sequenza, della tecnica dello split- screen. È un cinema fatto di specchi e di superfici che riflettono ombre, misfatti, segreti, personaggi ambigui, false piste e soprattutto due aspetti che costituiscono il marchio di fabbrica dell’opera di De Palma e che in questo film sono maggiormente delineati: le citazioni hitchochiane e la presenza del doppio.

” Ogni settore- come scrive Giacomo Manzoli- ha un’icona fra le icone: la pittura ha la Gioconda, la politica la foto del Che col sigaro in bocca, il cinema di finzione classico ha la scena della doccia di Psyco, il fattore di attrazione fondamentale “.

Vestito per uccidere inizia e termina con la scena di una doccia: il rimando a Psyco è chiaro fin dall’inizio, ma l’operazione che fa De Palma non è un remake, ma una riscrittura. La doccia, luogo di morte nel film di Hitchcock, diventa in questo caso spazio di fantasia erotica, si inquadra nel mostrare una donna inappagata, insoddisfatta della propria condizione, diventa luogo onirico impregnato di sofisticato erotismo e dissennata violenza.

“Il solo vero elemento che ho rubato a Hitchcock è stata l’idea di uccidere la star del film dopo mezz’ora. O almeno questo è l’unico elemento del quale io sia consapevole e mi è stato ispirato ovviamente da Psyco “. L’affermazione di De Palma ad una prima lettura potrebbe non lasciare soddisfatti ed essere ascrivibile ad una bugia visti i tanti rimandi che ci sono nel film alle opere di Hitchcock, come la presenza dell’assassino schizofrenico, un uomo imprigionato nel corpo di una donna, una sorta di Norman Bates più esasperato e la splendida sequenza girata al Museo che ricorda La donna che visse due volte. In realtà per il regista, Hitchcock “è come una grammatica”, un punto di riferimento costante che fa parte del suo stile, una diretta conseguenza dei suoi insegnamenti. Ispirandosi al grande regista inglese, De Palma costruisce, con un impeccabile esercizio di stile, un concentrato di tensione, ansia che nasce soprattutto dalla presenza di personaggi ambigui che si muovono in spazi claustrofobici. Lo psichiatra Robert Elliot (Michael Caine) ha in cura l’affascinante Kate Miller (Angie Dickinson), casalinga sessualmente frustrata che troverà la morte in ascensore per mano di una misteriosa bionda con indosso un impermeabile nero, occhiali scuri, armata di rasoio. Ad indagare oltre al detective Marino anche la squillo Liz Blake (Nancy Allen), che casualmente ha assistito all’omicidio e il figlio adolescente della vittima, Peter, che cerca indizi che possano far luce sull’accaduto, tenendo d’occhio soprattutto lo studio del dottore.

Nell’intento di cercare la verità, i personaggi si muoveranno in spazi chiusi quali ascensori, studi psichiatrici, vagoni del metrò alle prese con personalità frantumate, scisse, che accumulano maschere per impedire alla loro natura più profonda di rivelarsi.

Vestito per uccidere è uno dei film-chiave del cinema statunitense degli anni Ottanta che impernia tutta la sua forza nel tema del doppio, dell’altro da sé, uguale ma opposto. Il doppio è già presente a partire dal titolo originale: nel titolo italiano si perde il doppio senso del significato Dressed to kill che significa anche vestito per provocare, per sedurre. L’assassino è un personaggio scisso, dalla doppia personalità che lascia esplodere i suoi lati oscuri e tenebrosi quando è preso dall’eccitazione. Quando una parte di sé è eccitata dalla bellezza di una donna, l’altra prende il sopravvento e scatena la furia omicida perché vede un ostacolo alla sua metamorfosi. Questa tendenza alla scissione del personaggio, questa ambiguità che si agita sotto la superficie che caratterizza non solo l’assassino ma anche la vittima è poi rafforzata dalla presenza di specchi, lame scintillanti, superfici riflettenti che non fanno altro che proporre metafore di sdoppiamenti, immagini ingannevoli, frammenti di realtà. Il doppio si contrappone di continuo all’io, mostra l’instabilità di vittime e assassini, cacciatori e prede, mette in atto questo continuo cambiarsi d’abito, chiara allusione ad un’insoddisfazione perenne, ad una confusione identitaria. De Palma è abile nel mostrare il doppio in tutte le sue sfaccettature, dall’aspetto più estremo della schizofrenia al desiderio di essere altro da sé perché insoddisfatti per quel che si è.

Da antologia la sequenza che si svolge nel Metropolitan Museum di New York, luogo in cui Kate Miller si reca prima di essere uccisa. Persino in un luogo pubblico e sotto le buone maniere intellettuali si nasconde il desiderio più urgente e carnale. La donna invece che concentrarsi ad ammirare i quadri esposti pianifica inconsciamente un adulterio. La donna e l’uomo che l’ha abbordata si seguono a vicenda perdendosi e ritrovandosi in continuazione, creando una tensione erotica fatta di sguardi rapidi, ammiccanti. Un gioco di sguardi che dura nove minuti con solo la musica di Pino Donaggio a commentare le azioni dei personaggi.

Vestito per uccidere è anche una riflessione sullo sguardo: la donna è ossessionata e sorpresa del non essere inizialmente oggetto dello sguardo maschile, lo sguardo mancato la turba, poi l’avvolge sempre più in un turbinio a cui non sa resistere. Lo sguardo per De Palma significa “sporgersi al di là dei margini”, è un gioco di seduzione ma anche pericoloso, porta con sé emozione, smarrimento, violenza. Le immagini che vengono viste diventano ineliminabili, aperte sul baratro dell’incubo. Se è vero che la forma è il contenuto, il doppio si manifesta nella tecnica dello split-screen, ovvero stessa inquadratura, due centri di interesse simultanei. De Palma non usa questa tecnica per giustapporre due azioni simultanee che si svolgono in luoghi distanti l’uno dall’altro (come nelle celebri telefonate di Manhattan di Allen o di Harry ti presento Sally), bensì per accostare sullo schermo due ambienti comunicanti come nella scena in cui la presenza simultanea di due specchi e di due televisori riflettono il viso di Liz e dell’assassino.

Vestito per uccidere resta ancora oggi un film manifesto del cinema post-moderno, un cinema del citazionismo sfrontato che anticipa quello che verrà di Tarantino, che privilegia lo stile, che offre immagini soffocate da vetri smerigliati, che mostra come dietro ad ogni superficie pacificante vi è una dimensione pulsionale e violenta. Cosa è reale e cosa invece ne ha solo la parvenza? De Palma non si esprime se non attraverso le immagini, mostrando la dicotomia tra la finzione e la realtà che diventa vulnerabile alle incursioni del sogno, dichiarando il cinema menzogna ma allo stesso tempo, attraverso il personaggio di Peter, alter ego del regista, considerandolo uno strumento prezioso per far luce sulla realtà. Opera di grande effetto, sguardo puro, memorabile esempio di cinema raffinato e popolare, da godere con gli occhi.

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