Il caso Mattei, di Francesco Rosi (1972)

di Marzia Procopio

Esce nel gennaio del 1972, preparato meticolosamente in molto tempo e girato nel tempo record di due mesi, Il caso Mattei di Francesco Rosi, che qualche mese dopo vince, ex aequo con La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, il Gran Prix alla 25° edizione del Festival di Cannes. A Gian Maria Volonté, protagonista di entrambi i film, andrà una meritatissima menzione speciale.

Mattei, partito operaio, era diventato presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), e in forza di una posizione così importante fu protagonista nelle relazioni con URSS e Stati Uniti e attore nel movimento di decolonizzazione dei Paesi arabi, e sempre coinvolto nei conflitti interni alla Democrazia Cristiana. Morto il 27 ottobre 1962 in un incidente aereo, nel 1971, quando Rosi decise di dedicare un film alla sua misteriosa scomparsa, l’imprenditore di origine marchigiana era stato già archiviato dalla classe politica e dell’opinione pubblica. Rosi, che per il film aveva fatto ricerche con la precisione che gli ha meritato nell’ambiente del cinema il titolo “Il Professore”, inizia a raccontare dalla fine, dall’incidente aereo in cui Mattei perse la vita, scegliendo così di girare un film di inchiesta. Utilizzando materiali diversi – fiction, interviste d’archivio, spezzoni in cui compare lui stesso nel momento in cui raccoglie il materiale necessario – e montandoli senza linearità logico-cronologica per ricostruire a ritroso la complessa vicenda di quello che era l’uomo d’affari italiano più potente e noto, il regista analizza e mostra con convincenti puntualità e chiarezza le complicate trame che legavano la sopravvivenza e lo sviluppo dell’ENI alla classe politica nazionale e ai competitors internazionali negli anni del dopoguerra e del successivo boom economico. La figura di Mattei, che Volonté rappresenta come un volitivo, monumentale titano capace di sfidare i poteri mondiali per non privatizzare l’Ente nazionale, diede fastidio a diversi gruppi di potere, come indirettamente dimostra la misteriosa scomparsa di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’ora” che Rosi aveva incaricato di ricostruire, al tempo del trionfale viaggio di Mattei in Sicilia, le due ultime giornate di vita, trascorse a tessere rapporti importanti per la politica energetica italiana. Nel settembre del 1970, durante la preparazione della sceneggiatura (che Rosi stende tra gli altri con Tonino Guerra, autore del soggetto), De Mauro venne rapito e non fu mai più ritrovato. La sua scomparsa scatenò le più diverse ipotesi e illazioni da parte della stampa, soprattutto italiana, ma Rosi decise, nonostante avesse ricevuto ripetute telefonate anonime di minaccia, di girare comunque il film riportando la sua versione dei fatti e di inserire nella trama del lungometraggio la seconda linea di inchiesta, che non dà risposte definitive ma contribuisce a tratteggiare con ulteriori, fosche tinte la ricostruzione della scomparsa del rivoluzionario imprenditore che voleva togliere il Paese, attraverso metano e petrolio, dall’angolo buio di subalternità e dipendenza in cui la classe politica voleva che rimanesse. La direzione indicata dal film è stata confermata nel 2005 da una sentenza del giudice di Pavia, dopo la riapertura delle indagini voluta dalla nipote dell’imprenditore: la sua morte avvenne a causa di un attentato i cui mandanti non sono mai stati individuati, forse perché espressione di diversi interessi.

Il film di Rosi, ancora oggi modello ineludibile per chi voglia fare un cinema engagé – a lui devono molto almeno Oliver Stone e Scorsese (che ne ha fortemente voluto il recente restauro) – ha compiuto quest’anno cinquant’anni, eppure conserva non solo una forte carica di denuncia, ma anche, a livello di linguaggio, una grande modernità per le scelte registiche e di scrittura, a metà tra giallo e inchiesta, per il forte desiderio di arrivare alla verità che lo contraddistingue, e infine per il montaggio sincopato del grandissimo Ruggero Mastroianni (montaggio sostenuto dalla musica di Piero Piccioni), che concedendo quasi sempre l’ultima parola a Mattei contribuisce non poco a farne un personaggio carismatico, che scampa al pericolo di sembrare un santino solo perché le sue qualità umane – puntualità, assertività, maniacalità nel seguire anche i più piccoli lavoratori dell’ENI – sono tratteggiate per piccoli tocchi leggeri nella sceneggiatura, che quindi “attenua” l’interpretazione del tutto personale di Gian Maria Volonté, a proposito della quale Rosi ebbe a dire, a chi sottolineava che Mattei era schivo e completamente diverso dal Mattei del grande schermo, che l’attore milanese aveva “tirato fuori Mattei come era dentro”.

Oggi sarebbe possibile, un film così? Probabilmente no, perché troppo libero e coraggioso, carico com’è di elementi di riflessione storica e delle molte suggestioni che restano. Primo film di finzione che è anche un dossier giornalistico, Il caso Mattei si distingue per la scelta del regista di inscrivere informazioni contraddittorie in una compatta cornice narrativa che parte dall’incidente aereo e a quello torna dopo aver ricostruito filologicamente gli snodi della vita e della morte dell’«uomo più potente d’Italia». Attuale più che mai oggi, dopo le guerre del Golfo e quella di Crimea, nel pieno di una nuova guerra che ha decretato una nuova crisi energetica mondiale che si inserisce nel problema più ampio delle mancate politiche ambientali, il film di Rosi resta di una attualità che non meravigli, se ogni classico è un’opera che non finisce mai “di dire quel che ha da dire”.

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