La bella di Lodi, di Mario Missiroli (1963)

di Greta Boschetto

“Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano.
Quando son dritte, oltre ai bei denti e ai begli occhi e alla gamba lunga e al capello magnifico, chiaro, hanno tanta terra, almeno un paio di migliaia di pertiche (quindici pertiche fanno un ettaro); e anche se un anno il foraggio è scarso, un altro anno il prezzo del grano è fissato un po’ troppo basso, o il riso non rende, o se arrivano tutte insieme un bel po’ di cartelle d’imposte di successione arretrate, male che vada si tratterà di rinunciare a cambiare l’Alfetta per l’estate, o di non prendersi un gattaccio nuovo per il prossimo St Moritz; ma l’attività delle centinaia di vacche e del caseificio annesso basta comunque a produrre un reddito ancora abbastanza soddisfacente.”

La bella di Lodi, Alberto Arbasino

È una leggera estate degli anni Sessanta e Roberta, anzi, LA Roberta (Stefania Sandrelli) è pigramente sdraiata su una spiaggia della Versilia, a godersi il meritato relax che solo una donna del Nord sa quanto sia necessario dopo aver portato avanti un anno di affari e di “fare business”.
Mentre la spiaggia intorno a lei vive i suoi stereotipi estivi, ecco che arriva IL Franco (Angel Aranda), che con la scusa di cercare una sigaretta, mentre lei è assopita, le mette le mani nella borsetta: ma dico, che modo è? È subito lampante che questo qui non è mica un borghese, ma un proletario, una bestia quasi. Fa il meccanico. È bello, caldo. Alla Roberta piace subito, ma così eh, per una roba di una notte, che diventa un po’ una lotta all’inizio, ci si dà e poi ci si sottrae, si gareggia per chi dovrà comandare di più.

Così doveva finire la loro storia, ma il povero (o furbo?) Franco ha la malaugurata idea di andare a trovarla in città, a Lodi. Perché questa insistenza? Roberta è una rampolla della nuova Brianza Industriale, è moderna ma sospettosa, è emancipata ma non si fida, sicuramente quel rozzo meccanico sta cercando solo di fregarla: e così, per sicurezza, con una scusa lo fa arrestare. Poi si pente e se lo riprende.

Così inizia la loro relazione, che è una storia d’amore ma anche di soldi, dove si parla di affari e cibo ma non c’è tempo per le parole d’affetto, si corre su e giù per l’autostrada e si pranza velocemente negli Autogrill.
Con un’ambientazione torrida, da afosa estate padana, Missiroli, aiutato nella sceneggiatura da Arbasino, autore del romanzo, riesce perfettamente a descrivere in modo non convenzionale i cambiamenti in atto nella società dell’epoca (a partire dal nuovoruolo della donna) soprattutto grazie a una fotografia concentrata nel ritrarre il sorgere ovunque dei nuovi non luoghi per eccellenza: autostrade e piazzole che pian piano soppiantano l’Italia agricola e la trasportano verso un futuro sempre più industriale, dove ai vecchi cascinali si vanno affiancando i distributori di benzina, tempio e monumento alla nuova divinità rappresentata dall’automobile.

Il rapporto tra i due amanti intanto evolve, ma partendo sempre da una prospettiva anti-idilliaca, il contrario di quello che solitamente viene narrato; c’è anche una continua tensione erotica davvero moderna e insolita per un film degli anni Sessanta. Se inizialmente l’ostacolo tra i due è una apparenza sbagliata, una visione distorta nel guardare l’altro che magari nasconde anche la paura o l’incapacità di amare, successivamente il problema più grande diventa l’estrazione sociale di lui: non perché Roberta arrivi da ambienti molto più raffinati (la doppiatrice della Sandrelli, Adriana Asti, dà al personaggio una inflessione perfetta per la voce della nuova borghesia) e spesso risulta anche più cafona dell’umile Franco, ma ha soldi e una posizione sociale.
Lei è la pragmatica, ma annoiata e capricciosa, lui però è comunque quello da cambiare, da elevare perché si possa sfoggiare in società senza particolare imbarazzo e senza troppi pettegolezzi. Lei fuma, guida la Spider, domina il suo uomo come se fosse un suo sottoposto, lui è un macho italiano che non sopporta la donna padrona, cerca di sfogare la sua virilità in sciocchezze quotidiane ma finisce comunque per farsi comprare un’autofficina e farsi mantenere dai soldi di lei.

Le cose si fanno così inaspettatamente e ridicolmente serie che alla fine dovrà intervenire un’altra figura femminile: la nonna, vera matriarca della famiglia, che perentoriamente consiglia alla nipote di “tirare i remi in barca” e sposarselo subito, che un uomo sveglio in famiglia fa sempre comodo agli affari.
Questa innovativa pellicola non venne capita da tutti all’epoca, poco dai critici e per niente dal pubblico, che si aspettava una commedia balneare e si ritrovò davanti una storia agrodolce, dai tempi lunghi e dilatati, più figlia del neorealismo di quanto sembrerebbe all’apparenza.
Una storia “pratica” che solo un genio letterario come Arbasino poteva raccontare così, in maniera reale, terra a terra, con addosso l’odore delle campagne, delle vacche e dei soldi.

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