di Nicole Cherubini

E’ una serata qualunque in un locale qualunque. Luci in continuo movimento riempiono lo spazio e definiscono i corpi di giovani intenti a bere o a parlare, al ritmo di musica elettronica. Tra di loro c’è anche lui, Ermanno, ma con lo sguardo altrove, assente. Poco dopo lo vediamo intento a rubare un motorino con un amico, o davanti ad una slot-machine. Sempre con la stessa espressione catatonica, che quasi stona su di un viso poco più che adolescente. Ma sarà proprio uno dei suoi “lavoretti” a fargli fare un incontro importante, capace di accendere una scintilla di vita in quegli occhi impassibili.
Di lì a poco infatti Ermanno si troverà seduto ad un tavolo con lo zio Fabio e una ragazza polacca incinta. Tutto ciò che dovrà fare sarà fingersi padre del bambino, per poi “passare” l’affidamento allo zio e a sua moglie, sotto lauto compenso. Un lavoretto “facile e pulito,”come si suol dire. Nell’attesa della nascita, Ermanno viene mandato a vivere con la futura madre, Lena, in modo da farle fare tutte le visite necessarie e per controllarla. Ed è qui che inizia veramente il film, dall’incontro di queste due giovani solitudini.

Nonostante l’argomento spinoso (il commercio illegale di minori), per il suo primo lungometraggio Sironi adotta un approccio non documentaristico ma intimista; scegliendo di raccontare come questa nascita cambi la vita dei suoi personaggi, senza giudicarne le scelte morali. Sironi restringe la sua storia a 4 personaggi principali (anche se gli zii rimangono marginali), non ne approfondisce il vissuto o il contesto. Anche stilisticamente li racchiude spesso in inquadrature fisse, con un formato, il 4:3, che sembra quasi chiuderli nel loro stesso isolamento. Quello che emerge, da questa asciuttezza stilistica e narrativa, è infatti la profonda solitudine dei personaggi. Quella degli zii di Ermanno e sua moglie (Bruno Buzzi e Barbara Ronchi), entrambi sterili, disposti a pagare 10.000 euro per una neonata da chiamare “figlia.” Quella di Lena, pronta a vendere la sua bambina per poi partire per la Germania e lasciarsi tutto alle spalle.

E in mezzo Ermanno, che si trova a convivere con una sconosciuta venuta da chissà dove. La parte centrale del film si concentra proprio sul loro rapporto, sulla loro reciproca diffidenza. Due ragazzi così diversi eppure così simili: Lena vede il mare dalla sua finestra ma non può andarci, perché è rinchiusa in casa. Ermanno sta spesso fuori, ma solo per rubacchiare o giocarsi i soldi alle macchinette, non ha un futuro. L’unica cosa che li accomuna, visivamente, è il colore azzurro. Tutta la pellicola è infatti immersa in una fotografia fredda (di Gergely Poharnok), dai toni bluastri, che diventa algida nelle sale d’aspetto, nei locali e in ospedale. Ma l’appartamento dove Ermanno e Lena convivono è sempre inondato da una luce color acquamarina, il colore del mare, lo stesso colore dei loro occhi. L’elemento acquatico, il moto ondoso, è ricorrente e spesso presente, come a ricordare a questi due giovani che c’è vita e c’è libertà, oltre le loro vite asfittiche. Lena, in particolare, sembra comunque decisa a vivere la sua vita appieno, nonostante le circostanze. Una sera, per svagarsi un po,’ Ermanno decide di portarla ad una festa, e lì la vede per la prima volta: una ragazza come tante, che ha messo un bel vestito rosa per ballare.

Ma poi, prepotentemente, arriva lei. La piccola nasce prematura e, seppur contrariata, Lena è costretta ad allattarla. E se da un lato lei fa di tutto per tenere le distanze da quella bambina che sta per abbandonare, è Ermanno a prendersi cura di lei, e della madre. Chiamato a riconoscerla, è lui a darle il nome di “Sole,” ed è qui che il film perde una certa rigidità per sciogliersi in un sentimento antico ma forte e riconoscibile: il riconoscere l’altro come parte di sé. E ciò che effettivamente conta non è più il lieto fine, ma la possibilità di un’apertura, di un riscatto.

“Sole” è un film che si prende il suo tempo, e che a prima vista può apparire monocorde nella recitazione e troppo freddo nell’estetica; un film “da festival,” insomma. Tuttavia, guardandolo per intero, si comprende come il regista lo abbia concepito proprio così, come una conchiglia che si apre lentamente per poi mostrare la perla al suo interno.
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