di Bruno Ciccaglione

Strano il destino di Damiano Damiani, che dalle origini friulane giungerà ad essere autore di un gran numero di film di ambientazione siciliana, e vero e proprio padre fondatore del cosiddetto genere del “mafia movie”, tanto da arrivare poi a dirigere con successo mondiale la prima serie de La piovra. Il regista (che veniva dal disegno nel mondo dei fumetti e dalla pittura) spiegava il suo interesse come un tratto essenziale della propria formazione, essendo cresciuto in una terra di confine, martoriata dalle guerre, in una famiglia che gli aveva trasmesso il valore della costruzione unitaria e l’interesse per la cultura di ogni regione italiana e quindi, all’inizio un po’ casualmente, poi sempre più maniacalmente, per la Sicilia.
Anche se Salvatore Giuliano è del 1961, il capolavoro di Rosi resta un unicum sia stilisticamente che per il suo sguardo civile e la sua visione politica e a fare da modello ed apripista per i di film di genere a tema “mafioso”, sono prima A ciascuno il suo (1968) di Petri e subito dopo Il giorno della civetta (1968) di Damiani. Ad accomunare i due film, pur tra le molte differenze stilistiche dei due registi, sono da un lato la capacità di entrambi di fare sempre un cinema dalla resa spettacolare molto forte e dall’altro il fatto che tutti e due i film sono trasposizioni di romanzi di Leonardo Sciascia.

A entrambi Sciascia riservò critiche severe: a Damiani rimproverava di aver calcato troppo la mano sul dualismo tra i due personaggi principali, il capitano Bellodi e il capomafia Don Mariano; così facendo si finiva per dare al mafioso, che riconosce all’antagonista la qualifica di “uomo” nella ben nota classificazione che arrivava fino ai quacquaraqua, un fin troppo marcato senso dell’ “onore” (Sciascia arrivò a dire, che se avesse potuto tornare indietro, avrebbe eliminato quella classificazione, proprio perché rischiava di offrire una chiave di lettura troppo romantica e affascinante al personaggio del mafioso).

La critica a Petri (si veda anche il nostro articolo su A ciascuno il suo), invece, era soprattutto legata al fatto che nella messa in scena del film, Petri avesse in qualche modo accreditato, con la sua tipica passione per gli aspetti morbosi delle relazioni tra i personaggi, la pista passionale nell’indagine per omicidio di cui racconta il film, affiancandola a quella mafiosa e politica. Esattamente quello che Sciascia si era impegnato in ogni modo per evitare in tante sue riflessioni sui delitti di mafia, a cominciare proprio da Il giorno della civetta, in cui l’indagine del capitano Bellodi è prima di tutto tesa a smontare pezzo dopo pezzo la pista passionale, per svelare l’intreccio mafioso e politico che essa serviva a oscurare.

Con Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971) Damiani inaugura il poliziesco italiano degli anni ’70, ma maneggia una materia che si intreccia con la cronaca e la storia di quegli anni creando una miscela davvero esplosiva. La figura del commissario di polizia, che sceglie di fare giustizia contro i mafiosi consentendo vendette e omicidi, era ispirata alla figura del procuratore di Palermo Scaglione (all’epoca molto chiacchierato e su cui, nonostante l’attuale narrazione ne faccia il primo dei martiri della magistratura nella lotta alla mafia, vanno riportati a posteriori giudizi e valutazioni critiche le più diverse, sia pure ben lungi dalle gravissime collusioni che emergeranno a carico di altri magistrati).

Tragicamente, pochi mesi dopo l’uscita del film, Scaglione fu assassinato e paradossalmente questo contribuì al successo commerciale del film. Non c’è da stupirsi che questi avvenimenti abbiano turbato profondamente il regista, il quale decise quindi di realizzare Perché si uccide un magistrato.
Anche stavolta è il fido Franco Nero a interpretare il personaggio principale, quello di un regista che realizza un film-denuncia sulla uccisione del Procuratore della Repubblica di Palermo, descritto come corrotto e parte del sistema di potere politico-mafioso. Subito dopo l’uscita del film, però, il procuratore viene effettivamente ucciso e a tutti l’omicidio sembra la prova che tutto quanto anticipato nel film fosse accuratamente rispondente alla verità. E invece…

È impietoso il ritratto del sistema di potere politico-mafioso e delle istituzioni che il film mette in scena. Per lo spettatore di oggi, che ha conosciuto ormai molte storie, al cinema come in televisione, che giustamente hanno celebrato gli eroi dell’antimafia nella magistratura e nelle istituzioni, abituato anche a una retorica della società civile a volte perfino stucchevole, la cosa più sorprendente di questo film è proprio vedere messa in scena la contiguità e la complicità tra i poteri legali e illegali. Ma se il Rosi di Cadaveri eccellenti (anche lì sulla uccisione di alti magistrati e giudici) era interessato soprattutto a fare una riflessione sul potere, a Damiani interessa di più l’aspetto morale, la fedeltà alla verità. E infatti i suoi film sono sempre – e lo diventeranno sempre di più nel tempo – a dispetto di un apparente contesto “civile” o “politico, soprattutto dei melodrammi spettacolari e sentimentali.

Damiani, con il suo finale apertamente “antisciasciano” (la pista passionale in luogo di quella politico-mafiosa) realizza quasi una ammissione di crisi e di confusione. Il suo regista Solaris/Franco Nero, proprio quando tutto sembrava confermare le più feroci lotte intestine al mondo politico-mafioso come movente dell’omicidio, con la sua ricerca della verità ne scopre una che farà il gioco della mafia e così si scontra inevitabilmente con i giornalisti della propria parte politica (il riferimento è chiaramente al quotidiano L’Ora di Palermo, legato alla sinistra). Chiaro il dilemma: accreditare una verità che è capace di destabilizzare l’assetto del sistema mafioso o battersi per la verità, anche a costo di un consolidamento di quel sistema?

Aveva probabilmente ragione Pier Paolo Pasolini, che a Damiani scrisse una volta: “Sei un amaro moralista, assetato di vecchia purezza”.
In realtà il regista Damiano Damiani smentì qualunque collegamento tra i suoi film e l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione.
A proposito dei 2 film di Damiani i familiari del procuratore Pietro Scaglione hanno rettificato i libri che associavano i film al loro congiunto.
In particolare nella lettera di rettifica pubblicata in un libro su cinema e mafia i familiari del procuratore Pietro Scaglione hanno scritto:
“Il regista Damiano Damiani smentì ufficialmente i riferimenti al Procuratore Pietro Scaglione in entrambi i film citati nel saggio di Morreale. Per quanto riguarda il film Confessione di un commissario al Procuratore della Repubblica, Damiani dichiarò: «Il mio film non aveva nulla a che vedere con quel caso».
Per quanto riguarda il film Perché si uccide un magistrato, Damiani ovviamente smentì qualunque analogia tra la trama del film e l’omicidio del procuratore Pietro Scaglione («naturalmente quel delitto non era un delitto privato»). Peraltro, il procuratore Scaglione era vedovo da 6 anni prima di essere ucciso e fu assassinato
davanti al cimitero dei Cappuccini dove aveva deposto fiori sulla tomba della moglie”.
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Nello smentire qualunque riferimento dei film di Damiano Damiani sul procuratore Pietro Scaglione, i suoi congiunti in un libro su cinema e mafia scrissero nella lunga lettera di rettifica tra l’altro i seguenti due punti:
1) “In sede giurisdizionale, è stato accertato che il dott. Pietro Scaglione, Procuratore capo della Repubblica di Palermo, svolse le funzioni giudiziarie «in modo assolutamente specchiato», fu magistrato «dotato di eccezionale capacità professionale e di assoluta onestà morale», «di indiscusse doti morali e professionali»,
«estraneo all’ambiente della mafia ed anzi persecutore spietato di essa» e che «tutta la rigorosa verità è emersa a positivo conforto della figura del magistrato ucciso», sia per quanto concerne la sua attività istituzionale, sia in relazione alle sue amicizie e alla sua vita privata (così come si legge nella motivazione della sentenza
1 luglio 1975 n. 319 della Corte di appello di Genova, sezione I penale, passata in giudicato a seguito di conferma della Cassazione, pubblicata in Camera dei deputati, IX legislatura, Atti della Commissione parlamentare antimafia, Documenti, 1984, vol. IV, tomo 23, doc. 1132, pag. 729 sgg.).
2) Quanto all’omicidio del procuratore Scaglione, l’autorità giudiziaria di Genova ha accertato che i possibili moventi del delitto sono, in ogni caso, da ricollegare all’attività doverosa e istituzionale svolta dal magistrato Scaglione. In particolare:
a) nel corso delle ventennali indagini relative all’omicidio del procuratore Scaglione «la ricerca di motivazioni o legami di carattere privato si è rivelata vana», così come «nulla di sospetto o di equivoco emergeva dall’attento esame della pregressa attività giudiziaria svolta – in modo specchiato – dal defunto procuratore Scaglione (cfr. le deposizioni dei sostituti procuratori Rizzo, Coco, Puglisi, del maggiore dei
Carabinieri Ricci e del capitano dei Carabinieri Russo, e, in epoca successiva, dello stesso superpentito della mafia Tommaso Buscetta)» (così come si legge in Tribunale di Genova, Ufficio del Giudice istruttore, sentenza-ordinanza, 16 gennaio 1991, proc. pen. n. 2144/71 R.G. e n. 692/71 R.G.G.I.).
b) il Ministro della Giustizia, con decreto n. 3772 del 20 novembre 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura e rapporto del Procuratore generale della Repubblica di Palermo, ha riconosciuto al defunto Procuratore della Repubblica Scaglione lo status di «magistrato, caduto vittima del dovere e della mafia, in Palermo, il 5 maggio 1971»…”
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