Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer (2022) Aa.vv

di Fabrizio Spurio

“È difficile per me credere che un essere umano possa aver fatto ciò che ho fatto, ma so che l’ho fatto”. -Jeffrey Dahmer.

Netflix propone questa serie, divisa in 10 puntate, che ci mostra le vicende che ruotano intorno al caso di Jeffrey Dahmer, il mostro (o cannibale) di Milwaukee. Dahmer uccise le sue vittime in un periodo compreso tra il 1978 e il 1991. I crimini di cui fu accusato erano necrofilia, cannibalismo, stupro, adescamento di minori, atti osceni e squartamento. In realtà quello che colpisce è il forte sentimento di solitudine e paura che domina Jeffrey (Evan Peters). Il vero demone che si agita nella testa di Dahmer è la solitudine, l’inadeguatezza, la propria omosessualità associata ad un bisogno di dominio impellente. Il suo costante terrore di essere lasciato solo. E’ quello che vuole dal padre: quando da piccolo, alla fine dell’ennesima lite tra i suoi genitori, chiede a lui di non lasciarlo solo. Ma il padre è costretto a partire per lavoro. In realtà l’infanzia di Jeffrey non è costellata di abusi e violenze come molti hanno ipotizzato negli anni. La base del disagio di Jeffrey è la sua voglia di provare ad essere migliore sapendo di non poter riuscire. Oltretutto le sue pulsioni necrofile non lo aiutano. Inizia ad essere attratto dai cadaveri già nell’adolescenza, quando nei boschi vicino alla sua casa d’origine, rinviene i corpi di animali morti. Il padre, credendo in un interesse scientifico, approva questa cosa e lo introduce alle tecniche della tassidermia. La serie è costruita con precisione, con numerosi balzi nel tempo, avanti e indietro. Inizia con la fine, e cioè con l’arresto di Dahmer a seguito della denuncia da parte di una vittima superstite. Da questo punto si parte per capire come è diventato quello per cui tutti lo hanno conosciuto, per poi giungere agli episodi finali, al dopo arresto, con tutto quello che ne consegue. Non si tratta soltanto di seguire le vicende che hanno portato Jeffrey a diventare il Mostro, ma anche di come le sue azioni hanno influenzato l’esistenza di un’intera comunità. C’è un chiaro discorso di denuncia al razzismo che pervade la serie, sia con i preconcetti della società nei confronti degli omosessuali, sia nei confronti delle etnie non americane. Una forte critica è mossa anche verso il sistema della polizia americana, più volte colpevole di superficialità, mostrando in quante e quali occasioni Dahmer sarebbe potuto essere fermato, molto prima di commettere tutta la sua serie di omicidi (si contano 17 vittime, di cui soltanto due ragazzi bianchi americani, il resto appartengono a varie etnie ma sopratutto di colore).


I registi che si alternano nella realizzazione della serie riescono a mantenere uno sguardo unitario sull’opera. La desolazione dell’anima di Dahmer è resa molto bene dai colori spenti degli ambienti. Dove Jeffrey vive non ci sono mai luci forti, allegre, colorate, ma sempre toni bassi, dimessi: nella casa dei genitori, in quella della nonna, dove per un periodo ha vissuto. Ma sopratutto in quella che diventerà il suo covo, il locale preso in affitto. Quello stesso locale del quale, i suoi vicini, si lamentavano per l’odore nauseabondo che proveniva dalle prese d’aria. In quest’ambiente la luce è debole, c’è un’atmosfera polverosa, anche se il posto sembra essere pulito. Una pulizia di facciata. Come per l’odore dei prodotti chimici, che servono a Jeffrey per sciogliere parti dei corpi delle sue vittime.
Gli accenni violenti sono presenti, essendo una serie su uno dei più famosi serial killer americani, ma non sono il centro della vicenda. La violenza che poteva essere mostrata con dovizia di particolari, sembra quasi accennata, perché a disturbare lo spettatore è il cervello di Dahmer, le sue idee, le sue confessioni, le sue azioni assurde.
Evan Peters interpreta Jeffrey con perfetta misura, aiutato anche da una somiglianza straordinaria con il vero Dahmer. La sua recitazione è caratterizzata da una continua ricerca tesa a portare sullo schermo un personaggio pacato, molto spesso che si sente fuori luogo, impacciato, ma al tempo stesso spregiudicato. Non ci troviamo di fronte al tipico pazzo esaltato, onnipotente, super uomo. Al contrario. Dahmer cerca sempre un motivo, un perché a quello che fa. Molto spesso ha paura delle sue stesse azioni e vuole essere fermato. Durante il processo sarà lui stesso a chiedere al giudice la pena capitale, ma dovrà accontentarsi di 15 ergastoli per un totale di 957 anni di reclusione.
Per coprire le sue azioni mente spudoratamente, ma sono menzogne talmente banali che funzionano, le persone gli credono, sopratutto in base al fatto che Jeffrey offre di se questa costante aria di timido, debole, per cui, le persone che sentono le sue scuse si dicono “ma si poverino, si vergogna di questa cosa, lasciamolo in pace”. La forza di Jeffrey risiede nella sua debolezza. Il padre vuole aiutarlo, ma la tempo stesso vuole proteggerlo, non immaginando che in realtà nell’animo del figlio si cela un mostro. Accetta la sua omosessualità, e crede che il problema sia quello, oltre all’alcool.
Per quanti lo circondano, non sono i suoi disturbi mentali ad essere la causa delle sue azioni, ma il suo problema di alcoolismo, ed in un certo senso anche la sua forma di autismo. Potrebbe essere questa una chiave di lettura per la superficialità con cui vengono giustificate le sue azioni. Durante un primo processo per violenza carnale su un ragazzo, il giudice deciderà di non infierire su di lui per permettergli di continuare a lavorare. Lasciando così, di fatto, un mostro a piede libero. Quando Jeffrey riuscirà ad avere una relazione “duratura” con un altro ragazzo, sempre di colore (oltretutto muto, una condizione di diverso che in qualche modo lo accomuna a lui), sembra riuscire a ritrovare un equilibrio che lo possa fare uscire dal suo tunnel di violenza, ma la paura di rimanere di nuovo solo lo porterà a commettere l’ennesimo omicidio.

In questo sentimento è da ricercarsi la motivazione per cui Dahmer conservava parti del corpo delle sue vittime, o le mangiava: per poter sempre avere una parte di loro insieme a lui. Ecco quindi che la serie ci mostra il vero mostro del film, la solitudine in cui le persone vengono lasciate. Jeffrey, con la sua paura dell’abbandono, ma anche la solitudine delle famiglie dei ragazzi morti, che dopo la sentenza, vengono lasciate da sole, dimenticate, come vengono dimenticati i loro figli, le vere vittime di tutta la vicenda. Anche la solitudine del capo della polizia di Milwaukee, che voleva in qualche modo punire i poliziotti che non hanno compiuto il loro dovere quando dovevano, causando di fatto la morte di un’altra vittima, e che anzi verranno anche encomiati per il loro lavoro. Ma sopratutto la solitudine di quelle persone, in gran parte di colore, che spesso hanno lanciato il loro grido d’allarme, rimasto totalmente inascoltato, a causa di una superficiale, ingiustificabile, ed imbarazzante leggerezza delle autorità. La parte finale della serie è proprio incentrata sulle conseguenze della vicenda. Le persone toccate da Dahmer sembrano in qualche modo dannate per sempre, vittime trasversali delle sue azioni. Il padre Lionel (Richard Jenkins) cerca di trovare in se la causa del comportamento del figlio, vuole a tutti i costi caricarsi una colpa, forse a causa del suo non essersi mai reso conto della mostruosità del figlio. Un’altra vittima è la vicina di casa di Dahmer, additata per essersi lamentata delle autorità e quindi, in quanto donna di colore, non essere stata presa in vera considerazione. Finirà anche per essere ostracizzata sul lavoro, in quanto persona non gradita a causa delle sue dichiarazioni televisive contro le forze dell’ordine. Lo scontro politico è inevitabile, con marce per i diritti dei neri nell’America dei primi anni ’90. Ma c’è anche un’altra forma di critica, quella della mercificazione della violenza. Quando Dahmer viene arrestato si scatena un circo mediatico intorno a lui. Tutto quello che lo riguarda diventa fonte di guadagni e spettacolo. Si cerca anche di mettere all’asta gli oggetti che gli sono appartenuti, (si dice per motivi morali, il ricavato dell’asta andrebbe alle famiglie delle vittime). Ma la cosa non va a buon fine perché c’è l’idea che i cimeli sarebbero stati sicuramente comprati da gente morbosa amante delle sensazioni forti. Si arriva a speculare su tutto, si stampano fumetti. Ma la cosa più assurda sono le lettere dei fan che Dahmer riceve in prigione. Gli mandano soldi per un suo autografo, per un suo disegno. Jeffrey è esaltato da tutto questo, si sente una star, e risponde a molti di questi ammiratori, molti dei quali gli confessano anche il loro amore incondizionato. Interessante l’episodio con il parallelo temporale tra Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy “Pogo the clown” (Killer Clown) il serial killer che tra il 1972 e il 1978 uccise 33 vittime a seguito di torture, stupri e strangolamenti. La sua vicenda è stata anche probabile fonte di ispirazione per la creazione letteraria di Pennywise “It” di Stephen King. Nel film è mostrato un montaggio parallelo tra la morte di Gacy, tramite iniezione letale, e la conversione di Jeffrey al cristianesimo. Nello stesso giorno in cui Gacy viene giustiziato Jeffrey viene battezzato. E’ interessante notare anche come Gacy non volesse morire (nella realtà la sua ultima frase fu “prendervi la mia vita non compenserà la perdita di quelle altre”), mentre Jeffrey desiderasse la morte al posto dell’ergastolo.

Il produttore della serie Ryan Murphy non è nuovo alle atmosfere morbose ed horror/thriller, in quanto è il creatore dell’altra serie di culto “American Horror Story” nella quale, in quasi tutte le stagioni, compare proprio Evan Peters tra gli attori protagonisti. La sinergia tra i due ha portato quindi a compimento una miniserie molto ben costruita, rispettosa delle vicende reali e con un’eleganza formale che non disdegna di mostrare la morbosità dell’animo umano, contorto e malato.

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