DAHMER – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, serie tv di Ryan Murphy e Ian Brennan (2022)

di Laura Sabatino

“Perché pensi che siamo così tanti ora?” “Intendi detenuti?” “No. Intendo persone come me. Persone che chiamano: serial killer” “Non credo che qualcuno abbia una risposta a questa domanda. Alcuni danno la colpa al sistema autostradale. Un’invenzione nuova nella storia di questo paese. Puoi uccidere qualcuno e scappare in fretta, gettando il corpo lontano. O forse è stata la seconda guerra mondiale o il Vietnam. I papà che tornano dalla guerra sono traumatizzati, non ne parlano. Sono assenti, violenti, crescono figli arrabbiati. C’è anche l’esplosione e la diffusione della pornografia che non esisteva fino al 1970…” “È possibile essere semplicemente malvagi?” “Io penso che tu sai che credo sia possibile.”

È un dialogo che si svolge nell’ultimo episodio di Dahmer, serie tv di Ryan Murphy e Ian Brennan, tra Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee condannato a diciassette ergastoli per i suoi diciassette omicidi, e il sacerdote del carcere.

Non c’è una risposta definita a questa domanda che attraversa tutta la serie, ossessiona il padre di Jeffrey, tormenta i parenti delle vittime e lo stesso Dahmer: perché? Perché l’ha fatto? Dove sta l’origine del male? I serial killer sono mostri alieni da noi, o invece incarnano qualcosa che alberga in noi tutti?

La stessa domanda si può dire affascina da sempre il pubblico americano e non, e di conseguenza ha generato tanta narrazione attorno alle figure dei vari killer che dagli anni ’70 e soprattutto ’80 hanno popolato le cronache. Film sull’argomento, ma anche serie tv, romanzi, documentari e “docuseries” continuano a essere prodotti in grande quantità, per un genere che non conosce crisi.

Il film caposaldo resta Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, uscito nel 1991, che conduceva il gioco su un doppio piano: da un lato un serial killer in azione, da fermare al più presto. Dall’altro il dottor Lecter, rinchiuso in una cella di massima sicurezza e coinvolto nelle indagini dall’agente FBI Clarice Sterling come consulente per entrare nella testa del serial killer. Di conseguenza da un lato il serial killer era l’antagonista da trovare per salvare le possibili vittime in una corsa contro il tempo. Dall’altro si veniva sedotti dal fascino ed eleganza di Hannibal il cannibale diventando quasi indulgenti dinanzi alle sue azioni – anche perché la regia le raccontava fuori campo -, e finendo per sorridere dinanzi alla celebre battuta finale entrata nella storia del cinema: “Ti devo salutare Clarice, aspetto un amico per cena”.

Nei decenni successivi l’industria dell’intrattenimento ha continuato a raccontare i serial killer sulla scia di Hannibal, come anti eroi, o antagonisti affascinanti degli eroi, tanti Joker dall’infanzia maledetta che in fondo seducono perché compiono azioni estreme, al di là di ogni legge morale.

Per cui è comprensibile la preoccupazione con cui i parenti delle vittime di Jeffrey Dahmer hanno accolto la nuova serie Netflix sulla sua storia.

Poteva rivelarsi un ulteriore tentativo di frugare e rievocare l’orrore di quei delitti, con i loro congiunti trattati dalla narrazione come accessori del protagonista di quegli atti, Jeffrey Dahmer. Nuovamente trattati come meri pezzi di carne da scomporre, manichini senz’anima.

La serie però è altro, e anzi ha successo nel realizzare l’esatto contrario. Il punto di vista prevalente è sì quello di Dahmer, ma si sposta spesso altrove, diventando quello della vicina di casa o delle stesse vittime come avviene nell’episodio più bello, il sesto, intitolato “Ridotto al silenzio”. Tony, l’aspirante modello sordomuto dalla nascita, viene seguito a partire dalla sua venuta al mondo, attraverso tutte le difficoltà incontrate per imporsi nonostante la sua disabilità, sempre con un sorriso fiducioso sul viso e sostenuto dall’amore della madre a cui viene violentemente strappato.

In questo modo le vittime acquistano corpo e anima, non sono solo accessori di un folle. E il dolore della perdita assume un peso centrale nella storia. L’orrore diventa autentico, ingiusto, atroce. Tangibile come forse mai prima.

La serie non riesce a spiegare perché Dhamer è stato quel che è stato, nessuno al mondo probabilmente può.

Mostra però un sistema che non l’ha aiutato nella sua solitudine da bambino e adolescente, il classismo che lo ha emarginato non ritenendolo un vincente, la famiglia che gli ha procurato ferite insanabili e in qualche modo lo ha guidato all’orrore: un matrimonio infelice, la madre satura di psicofarmaci sin dalla gravidanza, il padre insensibile, la nonna priva di strumenti che non fossero portarlo in chiesa e pregare davanti alla tv.

E in seguito mostra un sistema che l’ha indirettamente protetto per dieci anni, perché per quanto lui fosse un emarginato aveva comunque il colore della pelle giusto.

Dahmer uccide in un arco temporale che va dal 1980 al 1991 e le sue vittime non a caso sono per la maggior parte di etnia afroamericana e asiatica, che lui rimorchiava in locali gay e portava nel suo appartamento in un condominio alla periferia della città.

La sua vicina di casa – anche lei afroamericana – chiamò più volte la polizia insospettita da rumori, urla e soprattutto odori immondi che le arrivavano in casa attraverso le prese dei condizionatori, sempre inascoltata.

In una occasione due poliziotti arrivano tempestivamente, trovano sulle scale del condominio un ragazzino quattordicenne drogato e in fuga, troppo debole e stordito per spiegarsi. Eppure dinanzi a quella evidenza di reato non danno ascolto alla vicina nera ma allo stesso Dahmer, alto e biondo: “È il mio ragazzo, ha diciannove anni, ha bevuto troppo”, e lo rimandano indietro nella camera delle torture.

Non è come schiacciare per terra un afroamericano fino a soffocarlo, ma è un intervento che ha ugualmente condotto il ragazzo alla morte.

Il valore aggiunto di Dahmer sono regia e recitazione. Quattro episodi sono firmati da Jennifer Lynch che non abusa mai della storia che le viene data. Non c’è compiacimento nel mostrare sangue, morti e smembramenti. Spesso l’orrore è suggerito da dettagli, la macchina si ferma un passo indietro dinanzi a qualcosa che avviene nella stanza accanto. E il non mostrare – come Hitchcock insegna – evoca nello spettatore un raccapriccio e un disagio profondi.

Evan Peters è stato QuickSilver tra gli X-Men e il co-protagonista di Kate Winslet in Omicidio a Easttown, oltre che tra gli interpreti ricorrenti di American Horror Story.  Qui conferma tutta la sua versatilità: tanto era ipercinetico tra gli X-Men e desiderabile a Easttown, tanto è robotico come Jeffrey Dahmer. Sguardo fisso, voce bassa, tanti “ok” sussurrati, occhi che nascondono l’abisso, nervi a fior di pelle. Splendida interpretazione, come eccezionale è il veterano Richard Jenkins nel ruolo del padre che sospetta da sempre di lui ma nega sempre, anche a sé stesso, in un crescendo di impotenza e disperazione fino all’evidenza dei fatti.

Alla fine la colpa prova a prendersela lui, pur di dare una risposta razionale e concepibile a quella domanda – perché? – per cui probabilmente una risposta non esiste.

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