di Girolamo Di Noto

Esiste una violenza narrata nel cinema che, pur non essendo costituita da rabbia espressa e sangue versato, è tuttavia insidiosa perché fatta di silenzi ostili alternati a parole pungenti. In Angoscia (Gaslight, nel titolo originale) del regista George Cukor questa forma d’abuso prende il nome di Gaslighting, un termine medico che indica una forma di manipolazione psicologica con cui si induce qualcuno a dubitare di se stesso, della propria memoria. Quella narrata da Cukor è una violenza che non lascia segni sul corpo, ma è più feroce e subdola perché devasta la percezione della realtà, manda in frantumi la psiche.

È la storia di Paula Alquist, una straordinaria Ingrid Bergman che vinse l’Oscar per l’interpretazione, una promettente cantante lirica che si innamora dell’affascinante pianista Gregory Anton (Charles Boyer), il quale dopo averla sposata, la convince a tornare a vivere nell’appartamento in cui, per circostanze misteriose, era stata strangolata la zia di Paula. La felicità della coppia ben presto sarà turbata da strani fenomeni che sembrano nascere dalla psicosi di Paula: oggetti smarriti, amnesie, raptus di cleptomania. È tutto frutto della mente alterata della donna oppure qualcuno si sta approfittando di lei?

Sin dallo scorrere dei primi titoli di testa, il regista pone lo sguardo sul particolare di una lampada a gas appesa alla parete di una casa e subito dopo, in una buia piazza nebbiosa di una Londra vittoriana, un uomo accende un lampione. Angoscia rappresenta forse l’esempio più significativo di integrazione della condizione interiore della protagonista con l’impianto scenografico. Con una tensione che cresce sempre più, Cukor è abile nel tratteggiare Paula come una sagoma senza contorni, umiliata, avvilita, dalla mente sempre più “annebbiata”, che si aggira in una casa a tre piani che si rivela soffocante, con stanze e corridoi vuoti che sembrano gabbie, oscuri meandri della sua psiche degradata.

Paula è una donna innamorata che si ritrova in una relazione insana con un manipolatore senza scrupoli, che fa battute sarcastiche su di lei, annulla la sua capacità di giudizio facendole credere cose non vere, assume un atteggiamento ora di falsa calma rassicurante ora di disprezzo, alterna tremende pungolature a momenti di tenerezza.

Cukor è abile nel lasciar trasparire sin da subito il senso di inquietudine del rapporto tra i due protagonisti: significativa è l’immagine in cui si vede la mano rapace di lui che entra nell’inquadratura e afferra il braccio di Paula – ineluttabile preda da parte di Gregory – inquietudine che poi via via cresce e che non tanto si manifesta nelle parole ma negli sguardi impauriti della donna, nei suoi occhi sbarrati che implorano aiuto, nei sorrisi trattenuti, nella furia delle mani che cercano sostegno, trasformandosi in angoscia terribile.

Gregory è un egoista camuffato da persona altruista, antepone i propri bisogni al proprio tornaconto personale. Sa quello che vuole, sa quello che vuole recuperare dentro quell’appartamento e il suo gioco perverso – che mira a far sì che la donna sconfini nella follia – trova il suo culmine nell’artificio di provocare abbassamenti dell’illuminazione a gas per ingenerare paura e angoscia nella moglie. Uno stratagemma diabolico che indebolirà Paula, vittima sempre più disorientata, confusa. Inizialmente si difenderà, cercherà di convincere che quello che dice lui di lei non corrisponde a verità, proverà ad instaurare un dialogo, si difenderà con rabbia fino a rassegnarsi e a pensare che forse il marito potrebbe avere ragione.

Se il personaggio di Paula vive di ondeggiamenti tra fragilità, esaltazione, paura, devozione, se in lei emerge la figura di una donna divisa tra il bisogno d’amore e l’impoverimento della mente, Gregory è invece il ritratto di un uomo perverso, autorevole, severo con la moglie, laido con le cameriere, personaggio mefistofelico, calcolatore, che agisce su di lei con un vero e proprio lavaggio del cervello, riducendola ad un totale livello di dipendenza psicologica.

Per fortuna sull’accaduto indaga un cocciuto ispettore (Joseph Cotten) e la luce, che nel film è un forte elemento narrativo, dopo tanti chiaroscuri, ombre poco rassicuranti, darà alla vicenda una schiarita meno conturbante.

Nel film spicca la memorabile presenza dell’esordiente Angela Lasbury, la futura Signora in giallo, da poco scomparsa, nei panni della servetta Nancy, giovane insolente, ambigua e civettuola. Un’interpretazione che le varrà la prima candidatura agli Oscar. Significativa è la scena che la vede protagonista dentro una stanza, impegnata in uno stucchevole dialogo con Gregory volto ad umiliare Paula, che resta silenziosa, gli occhi fissi sulle pagine di un libro, quasi immobile, mentre piccoli movimenti trasmettono tutta la sofferenza della donna.

Cukor è abile nel riuscire a trasmettere l’emotività, il senso di inadeguatezza e di smarrimento di chi è soggiogato dalla manipolazione e, grazie alla splendida interpretazione della Bergman, saprà creare e restituire efficacemente l’ambiguo confine tra realtà e immaginazione, senza però tralasciare una riflessione cupa sul rapporto uomo-donna, insinuando una sottile lama di ghiaccio tra le mura domestiche.

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