Di A.C.

Dalla sceneggiatura scritta da uno studente della Columbia University Martin Scorsese ottenne l’ispirazione e gli input creativi in un momento di grande crisi professionale e creativa convertendo le sue frustrazioni personali del periodo nella creazione di un’opera dalle tinte kafkiane, e di fatto la più bizzarra, originale e divertente della propria filmografia.
Un viaggio nell’assurdo, quasi dai rimandi all’Alice di Lewis Carroll, che dà l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera tutt’altro che tipica del suo autore, ma che invece, paradossalmente, si trova più che mai vicina in temi e stilemi alla sua poetica.

Scorsese, infatti, ritorna sulle sue care strade newyorchesi dei precedenti Taxi Driver e Mean Streets, ma senza quel clima di odio tenebroso degli altri due film e con un taglio insolitamente grottesco.
Mentre il Travis Bickle di Taxi Driver comunicava evidente dissociazione ed una pericolosa inclinazione antisociale, Paul Hackett è un uomo che comunica, sia nel suo volto sia nelle sue abitudini, quella normalità da tranquillo medio borghese, tuttavia egualmente alienato, rinchiuso nella prigione del proprio lavoro di programmatore informatico e della propria routine ordinaria, perfettamente conformato nella dimensione gigante e dispersiva della grande metropoli, che di giorno mostra la sua maschera di ordine nei riti lavorativi, per poi svelare di notte la sua vera natura tra follia, nevrosi e irrequieta agitazione.

Dall’incontro serale con una donna si apriranno le danze di una epopea notturna dalle sfumature tragicomiche, che nella prospettiva allettante dell’avventura di una notte si trasforma un incubo senza fine, in cui Paul sarà chiamato a scontare il peccato della sua tranquillità in un mondo di puro caos che non appartiene al suo quieto vivere, tra sfortune, equivoci, coincidenze incredibili e una sequela di personaggi deliranti.
Scorsese adotta una linea narrativa frenetica e totalmente priva di respiro, non lasciandoci un attimo di tregua e gettando direttamente lo spettatore in quella dimensione di follia e di incombente pericolo del suo sventurato protagonista, a cui Griffin Dunne presta il proprio volto ed un’impeccabile prova interpretativa, l’unica nella sua carriera in un ruolo primario.

Paul Hackett è sfortunato antieroe (in cui anche lo stesso Scorsese ha proiettato probabilmente parte di sé stesso e del proprio vissuto, in relazione alla crisi lavorativa che stava attraversando), le cui tribolazioni tragicamente esilaranti trovano un epilogo di amara salvezza, possibile solo rientrando nei ranghi di quella stessa alienante monotonia da cui si è tentata la fuga.
Fuori orario – all’epoca passato leggermente più in sordina ai molti rispetto ad altri lavori del regista – è una efficacissima black comedy dal sottilissimo taglio sociologico e ancora oggi un irripetibile e più che mai riuscito esperimento cinematografico.
Tra i migliori Scorsese degli anni ’80 e non solo.
Impossibile non amarlo per il suo impianto, come da te menzionato, prettamente Kafkiano in fase di scrittura. Oltretutto Rosanna è una delle attrici più sottovalutate degli anni 90, gran biondismo cinematografico il suo!
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