di Bruno Ciccaglione

La terza messa in scena del classico dell’antimilitarismo di Erich Maria Remarque, dopo quella del 1930 di Lewis Milestone e quella anglo-americana per la televisione del 1979 di Delbert Mann, risulta forse la più riuscita ed è ora in corsa per rappresentare la Germania agli Oscar del 2023. E non soltanto perché il film di Edward Berger possa avvalersi dei più avanzati mezzi tecnici di cui il cinema dispone oggi, che garantiscono tutta la sua avvincente spettacolarità. Ma soprattutto perché realizzato per la prima volta, come del resto era stato per il romanzo di Remarque, da una prospettiva tedesca che fa a pezzi e spoglia programmaticamente da ogni rischio di retorica il racconto della prima guerra mondiale e in generale pone il film in netta antitesi a ogni posizione nazionalista.
Il romanzo di Remarque (pseudonimo francese del cognome Remark), che era stato un reduce tedesco della prima guerra mondiale, ferito gravemente per poi essere di nuovo inviato al fronte proprio negli ultimi giorni di guerra, è stato al centro del dibattito culturale in Germania sin dalla sua uscita, nel 1928, e fino ai giorni nostri. Tra i libri simbolo del pacifismo mondiale, fu tra i primi a essere bruciati nei roghi di libri dei nazisti nel 1933 e diventerà poi un punto di riferimento per tutti quanti in Germania abbiano deciso di interrogarsi sul ruolo storico del paese nello scatenare i due conflitti mondiali del ‘900.

Come ha spiegato il regista Edward Berger, noto soprattutto per il successo di diverse serie televisive di produzione tedesca e nordamericana (su tutte ci piace segnalare Deutschland 83 proprio per la capacità di prendere di petto criticamente la storia della Germania), era importante che finalmente questo libro, di uno scrittore tedesco e scritto in tedesco, fosse portato al cinema da una troupe e un cast tedeschi: “Noi tedeschi abbiamo un rapporto molto speciale con la nostra storia. Abbiamo dato al mondo due guerre mondiali e siamo l’unico paese ad aver spinto la propria spinta distruttiva così intensamente; questo ci attribuisce una responsabilità particolare e anche un atteggiamento molto particolare sulla nostra storia. Diversamente dagli americani o dagli inglesi, che forse quando affrontano la loro storia vogliono anche celebrare i propri eroi, noi non potevamo e assolutamente non volevamo farlo”.

La più significativa novità introdotta nella sceneggiatura del film di Berger, sia rispetto alle precedenti versioni cinematografiche, sia rispetto allo stesso libro di Remarque, riguarda lo spazio dato ai negoziati di pace, che come mostrato nel film condurranno all’armistizio di Compiègne. L’enfasi qui è innanzitutto sull’evidente contrasto tra la durezza delle condizioni in cui vive (e muore) la truppa in trincea e invece il lusso e l’agio con cui la delegazione diplomatica e militare tedesca si prepara a trattare con i vertici francesi (ancora più evidente il contrasto tra il generale che ordinerà il drammatico e folle attacco finale, che sorseggia vino rosso e mangia cibi succulenti nella solitudine di grandi palazzi aristocratici, davanti al camino acceso, mentre i soldati letteralmente patiscono la fame e il freddo).

L’altro aspetto importante di questa novità di sceneggiatura, peraltro storicamente molto accurata e al passo con la storiografia più recente, è forse quello che più interessa Berger: sottolineare come la conclusione della prima guerra mondiale, con un armistizio che prelude agli accordi di Versailles, prefiguri già le condizioni che porteranno poi alla seconda guerra mondiale, ben rappresentate dai conflitti interni alla delegazione tedesca.
Non a caso Berger affida una importanza centrale al capo della delegazione incaricata dei negoziati Matthias Erzberger, che si impone per il suo spirito umanista e che per questo sarà al centro per anni delle polemiche dei nazionalisti tedeschi, tanto che verrà poi ucciso in un attentato da due terroristi di estrema destra nel 1921. Nel film il ruolo è assegnato all’attore forse più famoso del cast, Daniel Brühl, che lo interpreta con grande intensità e che pur in un ruolo da non protagonista riesce a trasmettere quell’afflato di umanità che alla fine si impone, portando agli accordi di pace.

Niente di nuovo sul fronte occidentale è un film che sin dalle prime scene ci cattura e ci emoziona, grazie alla grande perizia con cui è realizzato, una produzione imponente e a un cast eccezionale di attori giovani e giovanissimi, tutti molto convincenti, tra cui spiccano indubbiamente Felix Kammerer (il protagonista Paul Bäumer) che debutta al cinema in modo brillante e Albrech Schuch (Kat, il “veterano” del gruppo).
La ferocia e la stupidità della guerra sono rappresentate con tutta la crudezza necessaria. La spettacolarità delle scene di combattimento (che hanno richiesto una preparazione maniacale e piuttosto lunga, con oltre 500 comparse filmate in lunghi piani sequenza) non è mai fine a se stessa. I soldati non cessano mai di essere umani, ma il contesto in cui sono costretti produce situazioni assolutamente paradossali: ironicamente, in una delle scene di maggiore umanità, il dialogo tra Paul e Kat con la lettura di una lettera della moglie di Kat, avviene mentre i due siedono sulla latrina; tragicamente, come nella scena della uccisione del soldato francese in trincea, l’intreccio di emozioni e pulsioni contrastanti risulta intenso e contraddittorio.

Non è certo casuale che il film si apra con una scena di pace e intimità “familiare”, nel silenzio di un bosco, in cui una mamma lupo allatta i suoi cuccioli. Se l’animale minaccioso per eccellenza è tra le poche immagini idilliache di questo film, assieme ai panorami mozzafiato di una natura che non potrebbe essere più contrastante con ciò che invece fanno gli esseri umani, i portatori della civiltà si massacrano sistematicamente gli uni con gli altri. Più volte nel corso del film il silenzio si squarcia sotto i colpi di rullante della colonna sonora, la cui marziale andatura si strozza senza mai riuscire a partire.
Sia pure con qualche lunghezza di troppo il film sa appassionare fino al suo finale, forse ancor più tragicamente beffardo di quanto non fosse quello del libro, nelle ultime ore della guerra. La civiltà europea non ha mancato, neppure in questo momento, di una impeccabile precisione giuridica, indicando la cessazione delle ostilità per le ore 11 dell’11 novembre, termine oltre il quale si dovrà interrompere ogni ostilità, dopo essersi scannati fino all’ultimo secondo utile.

Qualcuno parlando dei nostri tempi ha voluto di recente parlare del ventesimo secolo come di un “secolo lungo”, con ciò indicando che contrariamente alla celebre definizione di Hobsbawn di secolo breve (iniziato nel 1914 con la prima guerra mondiale e finito nel 1991 con la fine della Unione Sovietica), il ventesimo secolo non sia ancora finito e che i conflitti attuali siano ancora figli degli squilibri che si produssero all’inizio degli anni ’90.
In questo senso, la decisione presa dalla Germania di tornare ad armarsi in modo imponente per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, a seguito della invasione russa dell’Ucraina, rompe proprio quel tabù che era tipico della cultura tedesca che ha dato origine, esplicitamente, a un film come quello di Edward Berger. Ironicamente, a guidare la attuale nuova corsa al riarmo tedesco, è un cancelliere socialdemocratico, laddove i socialdemocratici evocati nel film dai nazionalisti alla fine della prima guerra mondiale erano identificati come portatori di quel messaggio di pace universale che sia pure nel suo utopismo non può che rappresentare una fonte di ispirazione.

🔴 Il film è disponibile su Netflix
Dopo aver letto questa recensione credo proprio che lo vedrò. Sono sempre scettico sulle produzioni Netflix
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Grazie!
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