di Girolamo Di Noto

Tratto dal romanzo di Ercole Patti e sceneggiato dallo stesso autore e Ennio Flaiano, Un amore a Roma è uno dei film meno celebrati di Dino Risi, tuttavia è senz’altro degno di ricordo, sia perché resta uno spaccato di costume nella Roma della Dolce vita, tra salotti, varietà di terz’ordine, set di film storici, sia perché resta un film garbato e civile, che racconta l’amore in tutte le sue sfaccettature, nelle sue declinazioni irrazionali e incomprensibili, accomunando vecchi e giovani, donne di tutte le classi sociali, ricchi e poveri.

Un film anomalo che non scivola nella commedia, ma che conserva, grazie anche all’apporto di Flaiano, una vena crepuscolare e malinconica che Risi recupererà nel capolavoro Una vita difficile, con Alberto Sordi.

Da osservatore acuto e smaliziato del nostro tempo, Flaiano ebbe modo di scrivere anche d’amore, inquadrando – come era nel suo stile – nei vizi privati, nei risvolti minimi della vita, nelle piccole ossessioni. Un amore a Roma è la storia di un giovane di aristocratica famiglia romana, Marcello Cenni (Peter Baldwin), studioso e scrittore di saggi letterari, che una sera, rincasando, incontra una ragazza di Treviso, Anna Padoan (Mylene Demongeot), che è a Roma per far cinema, alla vana ricerca della notorietà. Se ne innamora, ma di lì a non molto, dovrà accorgersi che dietro la semplicità della donna e l’apparente disponibilità, si nasconde l’impossibilità di possederla in esclusiva.

Niente di nuovo, in effetti, l’amore racchiuso nelle solite trite illusioni, in qualche bella pagina di sapore drammatico, se non fosse per quella rara capacità che ha sempre avuto Risi di definire con pochissime inquadrature un ambiente o un personaggio, senza per questo banalizzarli o ridurli a semplici bozzetti, e soprattutto il film non cade nella banalità più scontata se non ci fosse la penna di Flaiano, che dona quello spirito di fondo che è allo stesso tempo disincantato e amaro, proprio di un altro film uscito sempre nel 1960, di cui Flaiano è sempre sceneggiatore, che è La dolce vita di Fellini.

Numerose sono le attinenze con il film di Fellini: innanzitutto il protagonista Marcello Cenni riecheggia Marcello Rubini, scrittore il primo, giornalista il secondo, entrambi intellettuali in crisi d’identità, “marziani” in una società borghese in disfacimento.

Anna, l’attricetta intrigante, irrequieta ricorda, come ha fatto notare il critico Fabrizio Natalini, la ragazza a cui, alla fine de La dolce vita, nella scena dell’orgia, Marcello impone di fare la “gallinona” per poi coprirla di piume: entrambe vengono dal Veneto ed entrambe sono venute a Roma per fare cinema.

Per non parlare poi dell’ambientazione notturna in una Roma suggestiva, mondana, ma anche vuota e deserta, splendidamente fotografata da Carlo Montuori, che sa ben descrivere nel silenzio della notte, nel buio rotto dalla luce algida dei lampioni, la monotonia, l’insoddisfazione di un uomo solo, un romantico babbeo infatuato del nulla, del frivolo.

Nello sceneggiare il romanzo di Ercole Patti, Flaiano apporterà delle modifiche: in particolare, inventando il personaggio di Fulvia (interpretato da Elsa Martinelli), sentirà la necessità di premettere alla storia tra Marcello e Anna la chiusura di una storia precedente.

Se il romanzo si apre con il protagonista che, “dopo aver trascorso la serata con alcuni suoi amici intellettuali” torna a casa e vede ” una figura femminile che andava e veniva da un portone guardando in su”, il film inizia, invece , sulla scalinata di Trinità dei Monti e qui viene raccontata in una lunga sequenza l’abbandono tra la precedente fidanzata Fulvia e Marcello. Nei dialoghi ricorrono i temi più cari dello scrittore abruzzese ( libertà, solitudine, cultura):
Fulvia: “Be’, non hai altro da dirmi? Allora, tutto finisce così, all’improvviso senti il bisogno della tua libertà, che significa?”
Marcello: “Niente…che restiamo amici. Ho bisogno di non avere legami, di sentirmi solo, non c’è altro… te lo direi“.

E dopo un po’ Fulvia rincalza: “Sì, sei uno sporco intellettuale, ti senti superiore a tutto, vero? Ai sentimenti, alle persone, ah, l’intellettuale! Mi fai ridere con la tua falsa modestia, ma ti conosco, io. Non hai capito niente, niente di niente, tu hai bisogno solo dei tuoi amici, ma non li conosci, non sai cosa dicono di te alle tue spalle“.
Marcello: “Le stesse cose che dico io di loro“.

Un amore a Roma narra di un uomo che vive un disincanto ma è anche la storia di un contrappasso: Marcello è amante delle donne ma è incapace di legarsi in una vera e propria relazione. Si accontenta di piccole avventure passeggere, si ritiene un inafferrabile donnaiolo che sarà poi vittima di una donna che non si lascerà afferrare. Anela la libertà, non vuole troppo impegnarsi, ma finirà con l’essere uno “schiavo d’amore “.

Il sarcasmo di Flaiano emerge in due scene contrastanti che rivelano da un lato un senso di superiorità da parte del protagonista, che sembra tenere a bada il dolore, come si vede nella sequenza in cui in una festa ritrova Fulvia e alla domanda rivolta da lei: “Perché non hai risposto alle mie lettere?” , lui risponde con una fulminea battuta: “Erano troppo belle, mi mettevano soggezione“.

Dall’altra parte il sarcasmo diventa beffardo nei suoi confronti nella scena in cui si vede Marcello, finalmente solo, lontano da Fulvia, incontrare un gattino e quando il protagonista comincia a raccontare a se stesso e al gatto la sua riconquistata libertà, dall’ombra risuona, come una nemesi, la voce di Anna. Sarà il preludio ad un’infelice passione e dietro l’indomabile figura femminile Risi farà emergere un’ariditá morale, un’illusione, “quel gran vuoto che aveva qualcosa di dolce come un fascino squisito ” che si rispecchia negli squallidi ambienti di teatro di varietà di terz’ordine e soprattutto nella sferzante ironia di Vittorio De Sica, qui presente in un cameo, nei panni di se stesso che sta girando un peplum Il figlio dei barbari, che sottolinea la fatua e amara realtà del mondo del cinema, vista come fiera di illusioni ed esibizionismi.
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