di Antonio Tortorello
“You need to start acting like you’re better than others,
and then they’ll start treating you better than others”
[Devi iniziare a comportarti come se fossi migliore degli altri,
e allora loro cominceranno a trattarti meglio degli altri]
Scrivere di Atlanta, la serie tv targata FX e firmata da Donald Glover (A.K.A. Childish Gambino), prescindendo dallo straordinario finale (e sappiamo bene quanto raramente si vedano ottime chiusure di uno show televisivo) è impresa assai ardua, giacché il rischio spoiler potrebbe concretizzarsi nella retrospettiva analisi di ogni singola scena, ma si può (e si deve) discorrere di questo prodotto anche solamente mettendo in campo il suo peso specifico all’interno di un panorama – quello appunto seriale – che versa ormai in uno stato di straripante ed eccessiva abbondanza.

Diventata da subito un oggetto di culto (anche se esclusivamente sul territorio statunitense; noi italiani paghiamo probabilmente lo scotto dell’oggettiva distanza socio-culturale dal concetto di “black power” e affini) e da subito giustamente acclamata da critica e “accademie” d’ogni sorta (nello specifico la prima stagione ha ricevuto due Golden Globes e due Emmy Awards), Atlanta racconta le vicissitudini di due cugini che cercano di sbarcare il lunario nell’ambiente della musica rap (uno è l’artista, l’altro è il manager) nel tentativo di migliorare le proprie vite.
Il rapper è Paper Boi (interpretato con irresistibile indolenza da Brian Tyree Henry), il suo manager è Earn (ovverosia proprio il deus ex machina Donald Glover, che oltre ad aver ideato e prodotto la serie – nonché diretto anche svariati episodi – si ritaglia un ruolo straordinariamente tagliato sulla sua eclettica figura [da recuperare anche qualche meritevole titolo dalla sua attività discografica, nello specifico “Awaken, My Love!” e “3.15.20”]), e sono accompagnati nelle loro scorribande dall’eccentrico Darius (Lakeith Stanfield, vero e proprio motore immobile della serie ed elemento che crea un dinamismo narrativo che forse è proprio il cuore dello show) e da Vanessa (la splendida Zazie Beetz, “on-again-off-again” fidanzata di Earn).

Un presupposto del genere – sulla carta semplicistico e banale – offre invece l’opportunità di un vorticoso viaggio psichedelico che non ha praticamente nulla delle naturali convenzioni di una serie tv, ma è invece un melting pot di racconti surreali e grotteschi che si accavallano tra loro (molto spesso in maniera totalmente sconnessa) in un irresistibile turbinio di sensazioni e “vibes” ad alto tasso di genialità.
4 stagioni, ognuna fortemente identitaria a suo modo, nelle quali si cambia anche spesso ambientazione (Atlanta è il quartier generale e non è casuale, data l’assoluta rilevanza della capitale della Georgia nella storia della cultura hip-hop) e si arriva a vedere il bizzarro peregrinare dei Nostri arrivare fin nel Vecchio Continente.

Libertà (di schemi narrativi in primis) e creatività al potere, dove la musica rap è solo un pretesto (non si spaventino dunque i refrattari a quel determinato genere musicale) per spaziare senza confini in un vero e proprio microcosmo disegnato con estro e fantasia.
Da noi è disponibile su Disney+; per chi è all’asciutto il suggerimento è di recuperarla quanto prima fruendone obbligatoriamente in lingua originale con sottotitoli in italiano. È uno di quei prodotti inscindibilmente legati allo slang e al lessico autoctono, pena il mancato assorbimento di un buon 60%-70% del piacere. Oserei affermare, in maniera probabilmente troppo radicale, che “sta tutto lì”… ed in effetti è proprio nei deliranti e spiazzanti botta e risposta tra i personaggi che si annida gran parte dell’efficacia espressiva dello show.

Frasi già entrate nel culto degli appassionati (“Poor people don’t have time for investments because poor people are too busy trying not to be poor”, “I poveri non hanno tempo per gli investimenti perché sono troppo occupati a cercare di non essere poveri”) raccontano un prodotto che è anche, a suo modo, un caustico j’accuse nei confronti della condizione in cui il popolo afroamericano è ancora costretto a versare (nonostante il “Black Lives Matter” e le indiscutibili evoluzioni sociali degli ultimi lustri), ma sempre con un taglio originale che si trova agli antipodi della mera e stantia denuncia.
Anche in questo Atlanta è geniale; nel non prendersi mai sul serio (“Nothing was about to happen until something happened”, “Non stava per accadere nulla, finché non è successo qualcosa”) e raccontare con leggerezza e sbalorditiva nonchalance anche i paradossi di un sistema sbagliato.
E tutto questo senza parlare del finale.
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