Di Nicole Cherubini

E’ notte fonda, e una ragazza sola alla fermata dell’autobus cerca di nascondersi da qualcuno che la osserva nell’ombra. La persona le si avvicina e si presenta come Sully: non la conosce, ma ha fiutato lei e la sua fame a chilometri. Dopo di che la inviterà a seguirlo, promettendole di prepararle una “buona cenetta.”
L’indomani si nutriranno di un’anziana signora.
Mareen, infatti, non è scappata di casa per diletto, ma è in fuga dalla sua stessa natura; un’insopprimibile fame di carne umana che le ha fatto sgranocchiare le dita di una compagna di classe come fossero grissini. Unico bagaglio uno zaino con dentro ciò che il padre le ha lasciato prima di abbandonarla al suo destino: il certificato di nascita, una cassetta con la sua voce e qualche spiccio. Dopo il pasto con Sully scappa di nuovo e qui inizia, a tutti gli effetti, “Bones and all.”

Al suo primo film americano Guadagnino non si impone schemi o generi precostituiti: basandosi sulla sceneggiatura di David Kajganich (tratta dall’omonimo romanzo di Camille de Angelis) dirige un racconto di formazione innervato di horror, utilizzando i clichè del genere per dipingere un film elegante, sfacciatamente mainstream ma anche personale.
Il cinema commerciale degli ultimi anni è stato infatti dominato da nugoli di storie pseudo fantasy/horror in cui attori giovani e carini mettevano in scena la sempiterna storia d’amore contrastata tra la bella di turno e vampiri, licantropi, zombie, ecc; basti pensare a “Twilight” e a tutte le imitazioni che ne sono seguite.
Guadagnino non si tira indietro, ma in questa storia Mareen e Lee (Taylor Russell e Timothée Chalamet) interpretano entrambi la Bestia, e non possono che lasciarsi dietro un’infinita scia di sangue.

Nel suo vagabondare Mareen si imbatte presto in Lee, e grazie al fiuto lo riconosce presto come simile: anche lui, come lei, si ciba di carne umana. Come un novello Virgilio, Lee si offre di accompagnarla nel suo viaggio. Mareen infatti non sta solo scappando, ma sta cercando la madre che la abbandonò da piccolissima e di cui non sa nulla.
I due si imbarcano così in questo lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, a bordo dello scassato pick-up di Lee. La mdp li segue, mostrando queste strade lunghissime tra prati immensi, i Joy Division in sottofondo, le mani fuori dal finestrino come per catturare un frammento di normalità, di libertà. Li seguiamo a dormire all’aperto sotto le stelle o a fare il bagno alle cascate, ma il loro idillio è sempre breve.
Quando la fame torna la vittima designata va uccisa e consumata quanto prima, poi la fuga, e la ricerca di un altro alloggio temporaneo, magari la casa stessa del malcapitato, dove lavarsi di dosso il suo sangue…Per di più Sully (Mark Rylance) è sulle tracce di Mareen, e non ha affatto buone intenzioni.

La coppia in fuga non è certo un topos nuovo al cinema (lo erano anche Bonnie e Clyde), ma è lì che Guadagnino esprime con forza la sua poetica. Più che stilema del genere horror, in “Bones and all” il cannibalismo si fa potente metafora di una marginalità tale da tagliare l’individuo completamente fuori dalla società, rendendolo un reietto. Ma l’essere umano non può vivere senza relazioni umane, senza affetto, senza amore. E più questo amore viene negato (da genitori o amici) e più la fame torna e si fa feroce, insaziabile. Guadagnino sottolinea tantissimo questo aspetto, facendo di “Bones and All” la naturale prosecuzione della sua serie tv “We are who we are.”
Quel titolo, che si imponeva come un assioma, parlava di adolescenti che si volevano distaccare dai modelli imposti dagli adulti, affermando identità altre, inedite. Mareen e Lee non sono cannibali per scelta, ma possono specchiarsi l’uno nell’altra. Loro dicono “Non mi sono mai chiesto cosa fossi, ma chi sei”: è un approccio che cerca empatia e comprensione, nonostante la consapevolezza della propria natura ferina.

Ma in “Bones and all” la solitudine dei giovani protagonisti è anche peggiore: figli di genitori che gli hanno passato la propria “malattia” come una tara, vengono abbandonati o addirittura aggrediti. Genitori che non comprendono né accettano la propria condizione, finiscono per tentare di sbranare la propria prole. Così accade a Mareen, quando riesce a ritrovare la madre in un ospedale psichiatrico:”l’amore non vuole i mostri,” le viene detto.
Di fatto, questo è il vero elemento horror del film, non il sangue sui corpi degli attori, non le viscere, ma la totale negazione della comprensione e dell’accettazione.
Inoltre gli altri cannibali che i nostri anti-eroi incontrano nel loro viaggio hanno sempre dei modi e delle fattezze grottesche, inquietanti…Ma è perché si cibano di carne umana o per la loro condizione di abbrutimento? Proprio uno di loro dice a Lee, quasi sovrappensiero “Forse l’amore ti può salvare.”
E di nuovo torna l’elemento paura, ma è il terrore diverso; quello di svelarsi all’amato per come si è, svelare tutta la tenerezza e la brutalità di cui si è capaci e chiedere :”Pensi che sono una persona orribile?”

Al primo lungometraggio americano, Guadagnino si concede tutto e il suo contrario: cast di grandi star ma in ruoli sgradevoli, l’America ripresa nelle sue zone più periferiche e degradate, niente sogno americano, nemmeno l’happy ending.
L’approccio del regista ricorda quello di Guillermo del Toro, cantore di creature diverse e braccate da uomini normali ma dal cuore nerissimo. A un simile Male non ci sono rimedi né facili redenzioni (come auspicava il padre di Mareen).
Tuttavia, anche un cannibale ha un cuore e può amare. Come insegna il classico per l’infanzia “The giving tree” di Shel Silverstein, l’affetto si dimostra con il dono. Non avendo più nulla da dare, Lee non esita a far dono di sé, perché “forse l’amore ti può salvare.”
Presentato in anteprima in concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il film ha goduto di una forte esposizione mediatica (grazie anche alla presenza di Timothée Chalamet, ormai divo di fama mondiale) ed è stato preceduto da aspettative altissime. Aspettative che hanno deluso alcuni critici e spettatori: il film non è di fatto né un horror, né un coming of age né una storia d’amore, ma un amalgama di essi. Inoltre i film di Guadagnino, a prescindere dal genere (corto, documentario, spot, ecc.) sono tutto fuorchè “indie;” sono invece film girati per i festival e per il grande pubblico internazionale, in cui il regista impone una certa ricerca estetica e la “ruvidezza” non è di casa. Ciò può piacere, come infastidire, è un fatto soggettivo.

Per chi scrive, ciò in cui Guadagnino eccelle è la visione del mondo giovanile, una visione mai retorica ma che sa esprimere senza filtri l’isolamento e lo straniamento che gli adolescenti provano nei confronti del mondo che li circonda e soprattutto degli adulti. Il regista è anche molto efficace nel descrivere le storie d’amore come elemento di “rottura” del contesto in cui si svolgono (come Tilda Swinton, che dava un colpo di spugna alla sua vita borghese innamorandosi di un cuoco). Inoltre, anche grazie alla figura efebica di Chalamet, il regista si è fatto portavoce di un’idea di maschile molto più emotiva e vulnerabile rispetto ai vecchi modelli di “virilità tossica.”
In definitiva, “Bones and all” rimane sì una grande storia d’amore venata di horror; un film per il grande pubblico che può piacere o meno, ma che non è stato girato per essere rassicurante.
Visto al cinema e devo dire di concordare con te. Era una storia tragica di due persone ai margini della società, con addosso una maledizione che li consuma. Sono due personaggi straordinari che riescono a farsi apprezzare per i loro difetti e per il loro continuo cercare qualcosa che li faccia andare avanti. Guadagnino non mi ha detto niente per diverso tempo ma da Suspiria in poi è riuscito a sorprendermi.
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