Sfida infernale, di John Ford (Usa/1946)

di Girolamo Di Noto

“Le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, l’ingiuria dell’uomo superbo” (William Shakespeare, Amleto)

Se c’è un regista che rappresenta il cinema nelle sue molteplici forme, questo è John Ford. Nessuno come lui è riuscito a saper meglio esprimere in immagini la complessità della vita, nessuno ha saputo far convivere lirismo e ironia, donando ad ogni inquadratura un cuore, uno splendore stilistico, un’anima.

In Sfida infernale i classici temi del western quali lo scontro tra civiltà e barbarie, la lealtà dell’amicizia virile, l’ineluttabilità della vendetta, l’interrelazione tra uomo e natura non sono descritti come semplici elementi di una trama da rispettare, non sono elencati come ingredienti inevitabili di un film di “genere”, ma sono raccontati con una potenza visiva da lasciare incantati e si fondono in maniera così naturale con gli aspetti stilistici, quali il gioco espressionista delle ombre e delle luci, l’importanza delle dimensioni degli spazi, la passione per il teatro, da considerare il film un capolavoro.

Poco importa se la ricostruzione della più famosa sfida di tutta la mitologia western – quella all’O.K. Corral, raccontata diverse volte al cinema da Sturges, Dwan, Kasdan, Cosmatos, tra lo sceriffo Wyatt Earp, Doc Holliday e la banda dei Clanton fosse quella meno attendibile: Ford sa di prendersi molte libertà rispetto ai fatti storici, ma a lui poco importa, perché ciò che a lui interessa sono i personaggi, con i loro rimorsi, il loro passato, sono le diverse facce dell’America, come la candida Clementine, la sanguigna Chihuahua o quella brutale dei Clanton, per non parlare poi dei ladri di bestiame, dei provocatori di professione, eintraneuses da saloon e persino un attore ambulante che porterà nella selvaggia e polverosa Tombstone niente meno che l’Amleto di Shakespeare.

L’importanza che Ford dà ai suoi personaggi emerge soprattutto nel titolo originale del film. My darling Clementine focalizza l’attenzione sulla giovane Clementine Carter (Cathy Downs), arrivata da Boston nel selvaggio West per cercare Doc Holliday (Victore Mature). Porre in primo piano il personaggio della donna, iniziare il film con una canzone triste e malinconica come My darling Clementine, finire con la sua immagine che saluta Wyatt Earp (Henry Fonda) mentre si allontana significa concentrarsi, porre l’attenzione non tanto sul duello finale, sulla sfida infernale che regolerà i conti tra le bande, ma su una figura che – nel conflitto tra violenza e legge – propende per quest’ultima: Clementine, infermiera, maestra di scuola incarna quel principio di civiltà che si oppone alla wilderness, è la fanciulla che viene dall’Est, portatrice di virtù e giudizio.

È un personaggio agli antipodi soprattutto se confrontata all’altra figura femminile, Chihuahua (Linda Darnell), cantante di saloon, seduttiva, procace e di facili costumi. Se Clementine rappresenta l’ordine, la famiglia, la speranza per un futuro di pace, Chihuahua si esibisce in un ardore difficile da contenere e che troverà solo nel letto di morte la forza del riscatto morale.

Sfida infernale è dunque un western atipico, che dedica più spazio al melodramma che al duello finale. A differenza di Ombre rosse e Rio Bravo, densi di scontri armati e galoppate nella polverosa e maestosa Monument Valley, qui solo nell’ultima scena c’è azione, sfida leggendaria. Sembra che a Ford interessi più il duello interiore dei protagonisti, l’aspetto sofferto e tormentato e il personaggio che assume meglio di ogni altro la figura di eroe romantico è senz’altro quella di Doc Holliday.

Ex medico, tisico, dedito all’alcool, Doc è un eroe tragico: non è “tutto d’un pezzo”, calmo e sicuro di sé come Earp, ma è un eroe diviso, pieno di dubbi e di conflitti, impotente ad agire e a cambiare se stesso e il mondo. È un uomo che non trova più posto nel nuovo mondo, sente il peso dell’esistenza, non accetta l’aiuto di Clementine, vivrà un amore disperato con Chihuahua, sarà disposto a sacrificarsi per amicizia.

Ford è straordinario nel riuscire a descriverlo in una sequenza memorabile: quando Doc, con un bicchiere pieno whisky, rompe con rabbia il vetro che gli sta di fronte, dietro cui è incorniciato il suo diploma di medico. Un’inquadratura che sintetizza due immagini contrapposte della sua identità lacerata: quella del medico, l’uomo che ha cercato di essere e quella di un Io alienato, frammentato che emerge dal vetro rotto.

In una situazione di conflitto interiore non può non emergere significativa la sequenza in cui nel saloon frequentato dai Clanton, da Earp e da Doc, entra in scena una figura originale, un attore ambulante che risponde al nome di Thorndyke (Alan Mowbray).

Nel mezzo del deserto di Tombstone viene rappresentato il monologo dell’Amleto di Shakespeare, monologo che nel film assume connotati simbolici importanti sia perché svela e rispecchia il tragico dilemma esistenziale di Doc Holliday, sia perché le parole che l’attore declama e che vengono poi riprese dallo stesso Doc quando l’attore, preso da un’amnesia, non se le ricorda più, sono un atto d’accusa nei confronti dei Clanton, identificati con ” le sciagure” che appestano la vita e con ” l’insolenza dei potenti”, di cui parla Amleto.

Sia Amleto che Sfida infernale sono storie di vendetta, basate sull’assassinio iniziale – che dà il via alla storia – di una figura vicina al protagonista per legami parentali: il padre in Shakespeare, il fratello minore di Earp in Ford. Come Amleto anche Doc si presenta vestito di nero e, come lui, porta una maschera: Amleto finge di essere impazzito, Doc si finge diverso da quello che è. Gestisce il gioco d’azzardo, ma in realtà è un gentiluomo, è un chirurgo, conosce Shakespeare a memoria, ma è tormentato, si sta uccidendo con l’alcool, ha assunto comportamenti forsennati e autodistruttivi dai quali non sembra più riemergere.

Al contrario di Doc, Wyatt Earp incarna l’eroe maturo, adulto, lo sceriffo coraggioso che raddrizza i torti. Non è disperato, maledetto come Doc, non ha debolezze psicologiche, sa mantenere la calma anche nei momenti più tragici. Intrisa di grande lirismo la scena in cui si vede Earp parlare con il fratello morto, chino sulla tomba: la sua figura stagliata contro il cielo e il profilo della lastra di pietra sono di un’intensità visiva ed emotiva strazianti e di grande impatto.

La timidezza che ha nei confronti delle donne lo rende protagonista di scene divertenti come rivelano le due sequenze dal barbiere, da cui esce sempre più pulito, quasi un “damerino profumato”, facile bersaglio di considerazioni ironiche, o nell’esilarante e unica e indiretta dichiarazione d’amore di Earp nei confronti di Clementine, nella scena in cui vede la donna allontanarsi nel fondo del saloon per seguire Doc. Rivolto al barman dice: “Mac, sei mai stato innamorato?”. “No – risponde Mac- ho fatto il barman per tutta la vita!”.

Nel rappresentare un mondo popolato da persone odiose e amorevoli, attori con le amnesie, dottori malati, donne candide e sensuali, Ford mette in scena una grande cornice in cui inserire tutti gli ingredienti della vita, offre un respiro epico alla vicenda, “incarna il bisogno dell’eroe di fermarsi e insieme di continuare a vagabondare “, in quei grandi spazi dove i suoi personaggi si perdono e si ritrovano.

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