Tornando a casa (Coming Home), di Hal Ashby 1978

di Roberta Lamonica

Quando avevo la vostra età… io mi sono ritrovato davanti a un tizio che parlava da un palco e che raccontava un sacco di stronzate e io ci ho creduto. Io andavo forte allora, ero capitano della squadra di baseball e volevo essere un eroe di guerra, io volevo andare a uccidere per il mio paese.
E ora sono qui per dirvi che ho ucciso per il mio paese o quello che era. E non ne sono affatto fiero. Perché non ci sono ragioni per farlo. Per sentire che una persona ti muore tra le mani o per vedere il tuo migliore amico falciato via. Io sono qui per dirvi che è una cosa vergognosa, ragazzi. Non c’è nessuna ragione per farlo.”

(Luke)
Locandina

“Out of time”, cantano gli Stones mentre il capitano Bob Hyde, un atletico Bruce Dern corre all’interno della base militare dove è in attesa di fare il suo dovere, partire per il Vietnam e prendersi la sua parte di gloria. Giovani spavaldi, pronti a tornare a casa da quella guerra ‘giusta’ con una medaglia scintillante da mostrare agli amici e alla propria donna. Ma tutto è fuori tempo, ormai; tornare a casa significa altro e non capirlo fa tutta la differenza del mondo.

È il 1979 e la cerimonia per la consegna degli Oscar è quantomeno movimentata. Il Cacciatore (The Deer Hunter), di Michael Cimino vince l’Oscar come miglior film tra polemiche, proteste e alzate di scudi da parte di una parte della stampa. Il corrispondente di guerra Peter Arnett accusa Cimino di aver raccontato la ‘bloody lie”, di aver mostrato i Vietcong come unici mostri assetati di sangue e i soldati americani come vittime innocenti. “Non è un film sulla guerra del Vietnam”, insisterà Cimino. E in effetti a quella cerimonia trionfa anche un altro film ‘non’ sulla Guerra del Vietnam, Tornando a casa (Coming Home), di Hal Ashby, in cui il reducismo e le conseguenze emotive, psicologiche e sociali della guerra sono al centro del destino e delle trasformazioni radicali dei protagonisti.

Momenti della premiazione

Jane Fonda e Jon Voight (e il memorabile Mike di De Niro ne Il Cacciatore?!) vincono il premio Oscar per le loro interpretazioni e anche Bruce Dern (strepitoso) avrebbe probabilmente trionfato se non fosse stato per l’inarrivabile interpretazione di Christopher Walken nel ruolo di Nick, sempre ne Il Cacciatore. Harold Visotsky definì Il Cacciatore e Tornando a casa “la versione hollywoodiana del Processo di Norimberga” e sostenne che la cultura popolare stava assumendo su di sé le responsabilità morali che politici e militari avevano accuratamente evitato. E la scena iniziale di Tornando a casa si presenta proprio come una riflessione socio-antropologica, quasi dal taglio documentaristico, da parte di chi quella guerra l’aveva vissuta e ne portava addosso incubi e cicatrici.

Una partita a biliardo fra reduci dove solo incidentalmente si parla della guerra, mentre qualche sguardo si fa opaco e lontano come se la mente pescasse nello stagno torbido di ricordi troppo dolorosi. Ma poi c’è luce, sole, la normalizzazione e il bisogno di appartenere di nuovo alla società civile di chi è tornato a casa. A scintillare al sole ci sono le mostrine, sì; forse una medaglia, certo. Ma soprattutto ci sono le sedie a rotelle, i lettini con le ruote su cui molti reduci si trascinano aiutati da bastoni di legno; si incontrano, si scontrano, sono ingombranti i reduci; sono ovunque a ricordare la loro presenza… più forte là dove la loro assenza sembra non essere stata affatto ‘sentita’.

Ma tutto questo è fuori dal circolo ufficiali dove Bob e sua moglie Sally (Jane Fonda) trascorrono la loro ultima giornata insieme prima della partenza di lui. La guerra è un cavallo che Bob e Dink domeranno, come domano tutto; come Bob doma il corpo (assai arrendevole, in realtà) di Sally – la mostrina scintillante in primo piano mentre fanno sesso – a ricordare la subalternità della dimensione privata rispetto a quella militare e pubblica. D’altronde “se il corpo dei Marine avesse voluto che i soldati si sposassero, gli avrebbe fornito una moglie”.

Bob parte, dunque, e Sally inizia lentamente a reinventarsi e a ridisegnare il suo mondo al sole della California. Impara a esprimere le sue opinioni, a respirare a vedere il mondo fuori dal circolo ufficiali. Si lega a Viola, fidanzata di Dink (in guerra con Bob), giovane indipendente e moderna che sceglie per cosa è più importante spendersi nella vita – suo fratello Bill (Robert Carradine) – e la introduce alla scioccante realtà dell’ospedale dove i soldati affetti da Disturbo post traumatico (PTSD) vengono trattati, o meglio ‘parcheggiati’.

E in ospedale Sally (re)incontra Luke, bello, paraplegico e arrabbiatissimo. È urina e non champagne, quello che i due condividono. Si rompe il sacco contenitore che Luke deve portare e Sally si bagna mani e vestiti. Lacrime, sangue e urina, sì; perché la guerra è perdita di dignità, ridefinizione degli orizzonti, degli spazi, della dimensione di intimità, di ciò che è ‘proprio’ e di ciò che è ‘altrui’.

Ma Sally è pronta a diventare altro, a prendere in affitto una casa sulla spiaggia, un’automobile sportiva, a cambiare l’acconciatura dei capelli, a spettinarli, a tagliarli, a essere libera di non essere più all’interno di quello stereotipo di moglie stile ‘The Stepford Wives’ che società e cultura le hanno inculcato e imposto. E anche Luke forse ritrova fiducia nel genere umano e un motivo perché l’esperienza devastante della guerra non resti provata e inascoltata; e la sua predisposizione a prendersi cura degli altri – come con Sally, Bill e i ragazzi dei college a cui racconta la sua esperienza – ne fa un eroe fragile e cavalleresco, moderno ed incredibilmente affascinante.

È un incontro delicatissimo e ‘scoperto’, quello tra Sally e Luke; un incontro che rompe le barriere della decency per aprirsi al mutuo conforto, alla condivisione profonda, a un senso di amicizia totalizzante, basata sul riconoscimento dei bisogni dell’altro e sul rispetto di quei bisogni che passa anche attraverso il sesso (bellissima e delicata la scena dell’intimità tra i due) ma che in qualche modo lo travalica.

Ma Bob è lì, c’è sempre, nelle lettere che scriveva Sally e, nonostante Luke, nel suo cuore.

Ashby è bravissimo nell’utilizzare il linguaggio crudo ma al contempo sottile delle emozioni per complicare le personalità dei suoi personaggi; e quando Sally parte per incontrare Bob a Hong Kong, la guerra non c’è, non sembra esserci più, ma non c’è più nemmeno Bob. Non ci sono più gli Hyde (nomen omen). Non c’è più niente da ascondere sotto una patina di perbenismo. Ci sono una donna diversa e un uomo cambiato, in quella stanza d’albergo che riporta alla memoria una scena analoga de Il deserto rosso del maestro Michelangelo Antonioni. È una ferita accidentale che lo riporterà a casa, e non una eroica missione. Perché la propaganda guerrafondaia lascia un “heap of broken images” dietro di sé, che qui è ravvisabile nel mito della frontiera e nella narrazione tutta americana dei ‘Buoni contro i Cattivi’, che porta i disillusi a una totale alienazione e perdita di senso. Bob non è più lo smagliante studente di West Point, al suo ritorno. Inganna, beve smodatamente, diventa scurrile e platealmente aggressivo con Sally. Ma l’FBI gli porta le prove della relazione della moglie con Luke e allora capisce di doversi spogliare di tutta la sua vita, dell’inganno della divisa di cui è stato vittima e di dover abbracciare, senza voltarsi indietro, l’unica forma di libertà che egli riesca ora a concepire.

Un finale forse frettoloso, quello che Ashby sceglie per questo film da non perdere ma che tradisce in qualche modo le sue premesse. Un finale che accontenta chi, come diceva un esperto del settore, aveva bisogno che “il Vietnam e il reducismo fossero velati dietro parole più morbide – parole come ‘storia d’amore’, “avventura epica” e “camaraderie”. E forse fu questa la chiave del successo al botteghino di Tornando a casa, film relativamente a basso budget (3 milioni di dollari, contro i 15 milioni de Il Cacciatore, il capolavoro uscito poco dopo, lo stesso anno).

“Il Vietnam è imbarazzante. Tutti sanno quanto sia imbarazzante, e se le persone non vogliono nemmeno sentirne parlare, va da sé che non pagheranno per sedersi lì al buio e vederselo tirare fuori”.

il giornalista Michael Herr nel 1977

E invece la guerra era apparsa ripetutamente e prevalentemente in film drammatici su veterani instabili: Billy Jack (1971), il capolavoro Taxi Driver (1976), Rolling Thunder (1977), solo per citarne alcuni.

Tornando a casa si inserisce nel filone. Forse lasciarlo aperto a uno studio più approfondito della potenza taumaturgica della condivisione mutuata dalla Controcultura di fine anni ‘60, del recupero di una dimensione di umanità, della capacità di amare in modi differenti su presupposti di solidarietà e equità delle emozioni, avrebbe meglio risposto alla premessa del film, di certo più della sottolineatura invadente della colonna sonora che include successi immortali di artisti del calibro degli Stones, dei Beatles, Jimi Hendrix, Buffalo Springfield, Janis Joplin, Jefferson Airplane e Bob Dylan, fra gli altri. La scelta di esplicitare i diversi momenti del film con la perfetta corrispondenza musicale, piuttosto che fornire suggestioni e creare mondi e immagini, diventa paradigma dei limiti che impediscono a Tornando a casa di essere un capolavoro, relegandolo inesorabilmente a opera minore sotto l’ombra immensa di pietre miliari come Apocalypse Now e Il Cacciatore.

Restano comunque scolpite nel cuore dello spettatore le immagini di Sally seduta in braccio a Luke di fronte al mare, dove la sedia a rotelle non è più un limite ma una nuova opportunità, e quelle di Bob che con tutt’altro spirito guarda verso quello stesso mare, principio generatore di nuove prospettive o tomba dove annegare definitivamente tormenti e ricordi devastanti.

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