Made in Hong Kong, di Fruit Chan (Hong Kong/1997)

di Girolamo Di Noto

Quando si pensa al cinema di Hong Kong, la memoria richiama alla mente i film di kung fu, con gli eroi che lottano a mani nude, i film di Wong Kar-Wai incentrati sul tempo che fugge e sull’amore perduto nella solitudine della metropoli, il cinema d’azione capace di sfoggiare uno stile che presto diventerà di moda, a base di macchina da presa a mano, luci al neon, ralenti.

Il cinema di Hong Kong, va ribadito, non è solo quello delle sparatorie e degli spadaccini: ne è prova uno dei film più struggenti della fine degli anni Novanta, Made in Hong Kong del regista Fruit Chan.
Girato con un budget ridotto all’osso, con residui scaduti di pellicola presi da altri set e attori non professionisti, Made in Hong Kong riesce nell’impresa di venire da subito consacrato come un classico già ad una prima visione, per come è efficace nel dar vita ad una generazione priva di futuro, soggetta a violenza e ad assenza di speranza.

Il film racconta la storia di Chung detto Autumn Moon (Lee), abbandonato dal padre, che ha lasciato la scuola e fa il teppistello per un boss di quartiere: si porta dietro il ritardato Sylvester (Li), che difende dalle vessazioni di una banda di liceali, e si innamora della coetanea Ping (Neiky), ragazza dai capelli corti e dall’aria sbarazzina, malata terminale in attesa di un trapianto che possa salvarla. La scoperta di due lettere insanguinate lasciate da una ragazza suicida cambierà i loro destini per sempre.

Storia nazionale e storie private si intrecciano costantemente nel film di Chan: le vicende dei singoli, la precarietà delle loro esistenze sono poste attentamente in parallelo con quelle di Hong Kong, soprattutto se pensiamo al fatto che il film è girato nel 1997, nell’imminenza dell’handover (il trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina).

“Per la mia generazione questa restituzione di Hong Kong alla Cina aveva il suono di un rintocco funebre, segnava la fine di un’epoca storica”, dirà il regista in un’intervista.

Se da un lato il male incurabile di cui soffre Ping, la sensazione di essere privato del proprio futuro provata da Moon che lo porterà all’autodistruzione, possono essere letti e interpretati in un’ottica politica, dall’altro lato il regista sembra avere come obiettivo principale quello di esplorare, di passare al setaccio una generazione umiliata dagli altri, impossibilitata a salvarsi, un manipolo di esistenze precarie circondato da un reticolo di grattacieli che imprigionano, da sobborghi malfamati, da una società nichilista popolata da figure adulte negative.

Sin dalle prime parole espresse in voce over da Moon, sin dalle prime inquadrature emerge il disagio, il distacco con la società. “Non ero bravo negli studi, ma il sistema scolastico non è certo migliore di me”.

Attraverso inquadrature sghembe, accelerazioni caotiche, ralenti e un crudo realismo, Chan descrive con maestria delle vite appese a un filo, che vagano alla ricerca di un punto di riferimento. Una generazione incapace di trovare il proprio posto nel mondo, fuori tempo, capace di muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso: “Il mondo cambia troppo velocemente e quando ci siamo adeguati è troppo tardi perché è cambiato di nuovo”. Le parole di tragica contemporaneità espresse da Moon rivelano il desiderio di non arrendersi, nonostante sia consapevole di un destino segnato.

Moon si dà arie da bullo, sbarca il lunario con piccole attività illecite, è un delinquentello di strada che ha come modelli gli eroi di Natural Born Killers, Leon, Taxi driver, ma il suo animo non è incline alla violenza: decide di accollarsi l’impegno di aiutare un ragazzo ritardato, si prende cura della ragazza malata, firma una carta per donare gli organi.

Violenza e redenzione camminano di pari passo ad Hong Kong, città senza futuro, colta in un momento in cui “tutti sono prossimi alla fine”. Una città tentacolare, sempre inquadrata attraverso grate, sbarre, reticoli che rendono bene il senso di claustrofobia e soffocamento, una metropoli dall’opulenza individualista, violenta dove i padri abbandonano i figli, i figli amputano a colpi di mannaia padri pedofili, le madri sono inermi e rassegnate e i poveri incalzati da debiti che non potranno mai pagare.

Moon lotta per essere diverso da quello che è, l’incontro con Ping darà una scossa alla sua vita, combatterà per salvare la sua amata, ma sarà un progetto che si dileguerá tra i sogni e la sua rabbia esploderà incontrollata contro il mondo degli adulti quando si renderà conto dell’impossibilità di reperire un senso alla sua vita.

Chan è straordinario nel mescolare momenti di commedia e dramma, struggenti sprazzi romantici e crude incursioni noir. Scene più leggere e apparentemente innocue come quelle che vedono protagonisti Sylvester che perde sangue dal naso ogni volta che è eccitato o Moon che si sveglia la notte con gli slip bagnati e dopo averli lavati e asciugati li mette nel frigo per rinfrescarli, si susseguono ad altre più violente come quella degli studenti con la divisa candida che torturano i più indifesi per noia o quella che vede sempre Moon in primo piano impegnato a compiere un delitto su commissione ma che sul più bello si blocca perché disorientato, confuso.

La fronte che sgocciola, la soggettiva del protagonista che rivolge lo sguardo verso il sole sono da antologia così come impregnata di lirismo è la sequenza più volte ripetuta del cimitero, unico luogo di conforto dove i tre adolescenti riescono ad essere sereni.

La morte è onnipresente nelle vicende dei protagonisti: si insinua nelle vendette delle gang rivali, nella brutale riscossione dei debiti, nella malattia terminale di Ping, nel vagare dei ragazzi per la città alla ricerca dei destinatari delle lettere insanguinate, nel gesto della ragazza suicida, delusa dalla vita, nel disincanto di una generazione convinta che “se moriamo giovani, rimarremo per sempre giovani”.

Che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? Chan non dà risposte se non attraverso le immagini che raccontano di ragazzi destinati a venire inghiottiti da un mondo che non sa che farsene e il discorso di Mao alla radio nel finale risulterà vuoto e sarcastico dal momento che per “Il Sole del Mattino” saranno riservate solo possibilità inesistenti e amare delusioni.

Film crudo, pessimista, da non perdere perché di una bellezza struggente, destinato a diventare un cult, esempio sublime di poesia di disperazione urbana, di grande forza espressiva.

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