di Margherita Loglio

Migliore regia al Festival di Cannes 1995, La Haine – L’odio è il secondo lungometraggio di Mathieu Kassovitz, con V. Cassel, H. Koundé, S. Taghmaoui.
Una banlieue raccontata con uno sguardo freddo e distaccato; un odio che non trova destinatario e si perde nel tempo e nello spazio di un giorno lunghissimo. Scale, scale mobili, pugni a vuoto e un mondo che è sempre per ‘voi’ e mai per ‘noi’. A rivendicarlo, il cambio di una lettera su un cartellone pubblicitario con una bomboletta spray. Una lotta politica che si dissolve sugli schermi dei televisori mentre il b/n del film si illumina dell’energia della cultura pop che riempie la pellicola e nel senso etico profondo che alberga dove sembra esserci solo disperazione e fallimento… perché “Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.
“L’odio” racconta fatti che hanno luogo nell’arco di 24 ore nelle vite di tre protagonisti immersi nel clima di tensione delle periferie della capitale: Said (Said Taghmaoui), Hubert (Hubert Koundé) e Vinz (Vincent Cassel), mentre un loro amico, Abdel, è in ospedale sospeso tra la vita e la morte, a seguito di uno scontro con la polizia la notte precedente.

L’odio rappresenta un conflitto incessante fatto di abusi di potere e di continui episodi di violenza ingiustificati da parte delle forze dell’ordine, nella maggior parte delle occasioni di natura razzista. Il contesto, oltre ad essere reale (e il film è ispirato a una storia vera) è attualissimo e vi siamo calati immediatamente grazie ad una serie di filmati di repertorio che accompagnano i titoli di testa.
Una logorante lotta tra due fazioni, un mondo dove non vi è posto per i colori, nel quale non esiste realmente un cattivo ma solamente un “noi” e un “loro”: da una parte i giovani dimenticati, persi nell’incertezza del loro futuro, che vivono in case dove in realtà non sono mai davvero al sicuro, e dall’altra le forze dell’ordine, totalmente indifferenti nei confronti della loro posizione.
E quando una parte non ha legittimità alla violenza, l’altra ce l’ha.
Un contesto che ci è raccontato direttamente dai tre protagonisti che sembrano apparentemente parlare del nulla ma tramite un costante botta e risposta rivelano la realtà della loro condizione, prendono coscienza della complessità della loro vita, anche se tutto ciò non conta poiché impotenti dinanzi le difficoltà delle banlieue che da soli non possono cambiare.

Il regista dipinge lo spaccato sociale con una spietata realtà ma senza mai sbilanciarsi o costringere lo spettatore ad assumere il suo punto di vista, componendo una pellicola dinamica e dal ritmo intenso, anche grazie al montaggio serrato. Kassovitz osserva mantenendo una debita distanza ma evita di cadere in un freddo distacco, mettendoci letteralmente la faccia, interpretando lui stesso un naziskin che si scontrerà con i protagonisti.
Dopo il successo di La Haine che oltre al premio a Cannes varrà a Kassovitz una lettera di apprezzamento dal presidente Jacques Chirac che lo elogiava per la sua rappresentazione di una parte della società francese da sempre tradizionalmente ignorata, il regista prenderà una strada diversa, allontanandosi dalle pellicole socialmente impegnate e realizzando film ad alto budget (I fiumi di porpora, 2000).
Ne L’odio non è trattato solamente lo scontro con l’autorità ma anche come i disordini siano documentati da una stampa continuamente assetata di notizie ma mai davvero interessata ai conflitti sociali che vuole tanto raccontare le smaccate disuguaglianze della Francia moderna e l’ancora contemporanea mancanza di ascolto dei giovani, privi di reali punti di riferimento.

L’odio fu originariamente pensato e girato a colori, solo in un secondo momento sarà trasferito su una speciale pellicola in bianco e nero. Quella versione sarà però conservata nel caso, una volta uscito, il film si fosse rivelato un fallimento.
Non manca di citazioni a film appartenenti al periodo della Nuova Hollywood come “Taxi Driver” di Martin Scorsese, nella scena allo specchio dove Vinz, con atteggiamento minaccioso, imita De Niro.
Ma la vera bravura di Kassovitz si evince nel suo non focalizzarsi sulla rappresentazione dei disagi del “quartiere difficile” ma concentrandosi sul racconto dell’identità di chi ne fa parte: Said, Vinz e Hubert, destinati a rimanere invisibili nell’ombra provano, ciascuno a modo proprio, a restare a galla nel mondo contro la marginalità alla quale sembrano condannati e – sebbene provenienti da culture e circostanze diverse – sono tutti armati dall’odio e dal giustificato risentimento nei confronti di una società che sembra averli completamente obliati.

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