Disco Boy, di Giacomo Abbruzzese (2023)

di Alessandro Marzia

Orso d’argento per la fotografia (Helene Louvart) a Berlino 2023, Disco Boy è una di quelle poche opere che, pur rimanendo abbastanza chiare e lineari, riesce a regalare allo spettatore una sensazione di straniamento fuori dal comune. Sulla base di una trama apparentemente semplice, Giacomo Abbruzzese, che scrive e dirige il film, attraverso una minuziosa costruzione degli spazi e una ricerca stilistica innovativa e mai scontata in fase di montaggio (durata circa otto mesi) riesce a trasmettere una cristallizzazione del tempo e dello spazio a dir poco sconcertante, ma sempre attraente. Usufruendo della collaborazione del disc jockey francese Vitalic, che cura e produce gli effetti sonori e le musiche della pellicola, Abbruzzese porta in sala un progetto abbastanza atipico per il panorama cinematografico odierno, trattando, con singolare originalità, temi ormai triti e ritriti.

Primo lungometraggio di finzione del regista italiano, Disco Boy, prodotto da ben quattro stati (Polonia, Belgio, Francia e Italia), è un film in grado superare i limiti imposti dalle frontiere, servendosi di attori e creativi provenienti da tutto il mondo. Frutto di grande perseveranza e determinazione da parte di Abbruzzese (che ha lottato per ben dieci anni con i produttori per far sì che tutto fosse esattamente come da lui immaginato), la pellicola vanta un cast a dir poco eccezionale. Strepitoso Franz Rogowski (dalla Germania) nel ruolo di Aleksei, azzeccatissima la scelta di Morr Ndiaye (dal Senegal) che nei panni di Jomo rivela grande talento alla sua primissima interpretazione e perfetta Laetitia Ky (dalla Costa d’Avorio), interprete della giovane Udoka. Abbruzzese mette in scena un’equipe multietnica. Le interpretazioni, tutte estremamente credibili, riescono a bilanciare accuratamente la progressiva artificiosità estetica e sonora dell’universo di Disco Boy, facendoci entrare sempre più in sintonia con esso. “Nessun attore ha recitato nella sua lingua natìa; era importante per me mostrare come le minoranze possano impadronirsi dell’idioma del paese che li ospita, in qualche modo rendendolo proprio”, ha affermato lo stesso regista in sede di conferenza.

Il film

Disco Boy racconta la storia di Aleksei e Jomo. Il primo, un giovane bielorusso, che emigra in Francia in cerca di fortuna, si arruola nella legione straniera al fine di ottenere autentici documenti francesi. Il secondo, un namibiano a capo di un gruppo ecoterrorista, combatte le compagnie petrolifere che stanno via via distruggendo i villaggi limitrofi.

L’intera trama è costruita secondo un gioco di echi visivi e sonori che si propagano per tutta la durata del film. La narrazione, tripartita, si sviluppa in direzione crescente, perfettamente resa dall’utilizzo minuzioso e calibrato della fotografia. Helene Duval, per la prima parte, rappresenta una Parigi estremamente realistica, che vedrà poi la sua completa trasformazione, nella sezione finale, caratterizzata da scelte cromatiche più surreali, ricorrendo ad un utilizzo delle luci neon già visto nell’inquietante e psichedelico “The Neon Demon” (2016), del regista danese Nicholas Refn. La porzione narrativa di transizione tra i due universi è, invece, quella ambientata nella giungla nigeriana, luogo di trasmigrazione delle anime. È proprio qui che il regista italiano inizia a sporcare l’opera di quegli elementi cupi e sciamanici che faranno virare il racconto verso un altro orizzonte, più onirico e visionario.

Nella giungla namibiana, i due protagonisti incroceranno i loro destini in una vera e propria lotta per la vita che li cambierà irrevocabilmente. Abbruzzese costruisce la scena con stile estremamente elegante. Grazie all’utilizzo della camera termica e di movimenti armonici (curati dal coreografo nigeriano Qudus Onikeku, che costruisce anche le numerose coreografie), la lotta tra i due ci appare proprio come una danza simbiotica. Il legionario e l’ecoterrorista si battono con forte rigidità coreografica, custode di un piacere animalesco disumano ma allo stesso tempo piacevole; le dinamiche della danza sono in fondo le stesse della guerra. Il momento di confronto appare cruciale per i due personaggi, come suggerisce precedentemente la sovrapposizione delle due musiche nella prima scena di ballo del film. Il regista, qui, sembra omaggiare lo sposalizio tra il grammofono di Fitzcarraldo e le musiche tribali degli indios, il connubio tra due culture differenti, presente, appunto, in “Fitzcarraldo” di Herzog. Entrambi ai margini della società vivono nella speranza di un futuro migliore, ma risultano antitetici sotto un punto di vista più pragmatico. Aleksei è scappato dalla propria terra in cerca di un ‘esistenza lontana dalla dittatura, mentre Jomo si comporta come un Don Chisciotte per il suo villaggio. Per entrambi la guerra è necessaria, ma per scopi opposti, uno di acquisizione, l’altro di affermazione, di un’identità personale. Disco Boy appare così un war movie del tutto atipico, non portando una visione verticale e univoca della guerra, ma osservando e studiando il fenomeno da più punti di vista, senza farne vinti o vincitori.

Anello di congiunzione tra i due personaggi è, sicuramente, la figura della sorella di Jomo, Udoka, che nella parte finale, filtrata dagli occhi del giovane Aleksei, appare sia come la personificazione di un passato travagliato con cui fare i conti, sia come la reincarnazione dell’ormai lontano Jomo. Il legionario e il paladino concluderanno tra le folle della discoteca il loro confronto, arrivando, infine, ad una completa conciliazione. La discoteca diventa, così, luogo di riflessione, teatro di un’attenta analisi della propria coscienza, in totale antitesi con l’atmosfera caotica cui siamo soliti associarle. Dialoghi asciutti, silenzi rumorosi, scenografie moderne, musiche fuori dal tempo e dallo spazio, comunicano perfettamente allo spettatore il dramma esistenziale di chi, costretto a scappare dalla propria terra, per un motivo o per un altro, non avendo ancora fatto i conti con il proprio passato, perde sé stesso tra la folla.

“Non dovete più sentire freddo, e per non sentire freddo, non dovete ricordare il caldo”

Che dire, Giacomo Abruzzese, in questo grigio diluvio cinematografico, porta in sala un film estremamente moderno, sia per regia che per tematiche, non solo capace di attaccare esplicitamente la tendenza di alcune industrie a distruggere e deturpare il territorio nel quale si stabiliscono, – chiaro il riferimento alla situazione dell’Ilva di Taranto, città natale dei Abbruzzese – o a trattare con grande sincerità le dinamiche del fenomeno migratorio e le sensazioni della guerra, ma, soprattutto, di mettere in scena un viaggio narrativo sensoriale, esterno e interno, temporale e fisco. Disco Boy si fa portavoce dello smarrimento identitario esistenziale nella società e nel mondo. Aleksei, infatti, sarà addirittura disposto a rischiare la vita pur di un passaporto francese, intraprendendo un viaggio al termine della notte che si concluderà nel riconoscimento di se stessi nell’alto, lo straniero. In genarle, Disco Boy si può definire un film politico che, invece di dare risposte, mina le certezze.

Per quanto Abbruzzese abbia dichiarato che l’intero lavoro non sia stato consapevolmente influenzato da nessun titolo in particolare, osservando attentamente la pellicola, risulta molto difficile credere alle parole del regista. Oltre ai già citati Refn ed Herzog, è impossibile non riscontrare nell’estetica imperialistica della giungla gli stilemi tipici del genere, portati per la prima volta su grande schermo da Apocalypse Now, le sequenze degli elicotteri ricordano gli angeli della morte inscenati da Coppola nella celebre scena delle valchirie. Meno espliciti, invece, sono i rimandi al cinema thailandese di Apichatpong Weerasethakul che, in film come “Tropical Malady” e “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”, tratta il tema della giunga con una forte spinta ossessiva. Da non trascurare, inoltre, la costruzione simmetrica delle immagini di chiara ispirazione kubrickiana e, infine, una strutturazione dei piani sequenza molto simile a quella di Andrej Tarkovskij, la camera entra attraverso gli infissi delle porte con lo stesso stile del regista russo. Fatto sta le contaminazioni sono inevitabili per chi gira un film nel 2023, con cento anni di capolavori alle spalle, certo però, preferiremmo queste venissero dichiarate con maggiore sincerità e modestia dai registi stessi durante le interviste.

Nonostante ciò, Disco Boy è un’opera dal forte impatto emotivo e sensoriale, Abbruzzese con questa sua prima pellicola si piazza in cima alla lista delle giovani promesse del cinema europeo e, perché no, mondiale. Un film da vedere assolutamente in sala, per lasciarsi trasportare dalle musiche coinvolgenti e dalle ambientazioni immersive, tra i fiumi della giungla namibiana e le discoteche parigine. Detto ciò, penso che Disco Boy potrebbe essere effettivamente degno di ricevere un posto nell’olimpo del cinema di guerra. Disco boy è un capolavoro?  Una domanda a cui solo il tempo potrà rispondere…

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