di Girolamo Di Noto

“E l’indomani sarebbe stato un altro giorno, quasi identico”
Georges Simenon
La vasta produzione letteraria di Simenon è stata oggetto di svariate trasposizioni cinematografiche. Uno dei tanti registi che è riuscito a dare un’immagine visiva al mondo di parole creato dallo scrittore belga è stato Granier-Deferre. Ben quattro furono i romanzi portati sullo schermo dal regista francese, ma quello che più si avvicina alle atmosfere cupe e malinconiche dei libri è senz’altro Le chat, ritratto di un inferno coniugale che vede protagonisti due anziani, due icone del cinema francese: Jean Gabin nella parte dell’ex tipografo Julien Bouin e Simone Signoret nei panni della moglie Clémence, ex trapezista rimasta invalida.

Clémence e Julien convivono da venticinque anni in un villino di periferia. Ma è da un bel pezzo che non si amano più e sono logorati da un odio rancoroso. Hanno smesso da tempo di parlarsi e quando si rivolgono la parola, questa è avvolta dentro un grigio torpore, non lascia spazio a possibili riconciliazioni, non dà nessuna scoperta di un nuovo senso da dare alla vita, ma si fa carico di astio e risentimento reciproco.

Questa coppia imprigionata nell’incomunicabilità dei sentimenti vive un’esistenza che è caratterizzata dalla scelta di essere indifferenti l’un l’altro, ma nello stesso tempo non agisce per venir fuori dalle abitudini logoranti di cui è vittima. Clémence e Julien sono due personaggi spietatamente invecchiati, segnati da una rassegnazione sul cui sfondo risaltano come unici elementi di vitalità i ricordi di lei e le passeggiate solitarie di lui. Ogni tanto qualche flashback riporta alla memoria la promessa di una felicità, la protagonista ripresa all’atto dell’acquisto della casa o immersa in paesaggi pieni di vita, di colori scintillanti, di profumi.

La coppia terribile del cinema francese è straordinaria nel rendere la disperazione, il disincanto, il gravoso peso del passato e la dolente assenza di futuro. Entrambi sono proiettati in una sorte di palude in cui pare non sia possibile muoversi. Tutto rimane inerte, avvolto nei soliti odori: le giornate si susseguono identiche, interviene la noia, la vita opaca, l’inerzia. Sono ormai in preda delle abitudini, così rapiti dalla ritualità dei gesti che da anni replicano identici a sé stessi. Mangiano senza guardarsi negli occhi, pranzano come seduti sui banchi di scuola, ogni tanto si rinfacciano la rabbia accumulata in troppi anni di matrimonio infelice: “Ti ho promesso che ti amavo per sempre e invece mi sono sbagliato, non ti amo più”, le rinfaccia lui. “Dovrebbe esserci una legge: vietato vivere insieme se due non si amano più”, ribatte lei.

Si parla poco nel film, ma quelle poche parole sono taglienti e spesso vengono scritte su foglietti di carta, biglietti criptici che in genere ricordano la presenza di un gatto. Le chat, appunto. Tralasciando il titolo italiano – L’implacabile uomo di Saint Germain – di rara stupidità e senza senso, Le chat si concentra, oltre che sul disgregarsi dei sentimenti di una coppia astiosa, anche su un gatto che Julien trova per strada, su cui si riversa tutta la sua tenerezza. Il gatto sancirà definitivamente la fine del loro rapporto: Julien si affeziona, diventa il suo unico compagno di vita, Clémence ne è violentemente gelosa perché viene visto come investimento affettivo. Lei odia il gatto che fa compagnia a lui e l’animale ben presto si insinuerà tra le macerie del loro amore finito diventando segno ancora più tangibile della loro incomunicabilità, finendo col rendere ancora più rancorosa e perfida la donna.

Intorno a loro, sullo sfondo delle due solitudini, c’è un mondo, quello delle piccole case di periferia, che sta scomparendo per far spazio a casermoni privi di umanità. Il degrado umano a cui assistiamo si rispecchia in quello urbano: sin dall’inizio del film si sentono i rumori delle ruspe che sventrano case ormai abbandonate e se prima dalla finestra entravano luce e pace, adesso si vedono “case abbattute come fossero modellini di cartone” e la demolizione del quartiere acquisisce connotati tragici divenendo una chiara metafora di un ex amore finito.

La solitudine e l’orrore dell’emarginazione dei due protagonisti sono raggelanti e non bastano i rosei ricordi del passato a rendere meno piatta la vita senza orizzonti della coppia, eppure sarà proprio questo gioco perverso, questo rancore a legarli indissolubilmente, un sentimento del quale non possono fare a meno, perché è per entrambi l’unica barriera contro la morte. Per questi ruoli i due grandi attori vinsero un Orso d’argento al Festival di Berlino.

Rispondi