di Laura Pozzi

Difficile scindere l’uomo dall’artista, sopratutto quando tra i due s’insinua il “personaggio”, una figura con la quale a volte diventa complicato formulare un giudizio senza cadere nella trappola del pregiudizio. Con Nanni Moretti, uomo, artista e personaggio si fondono da sempre in una cosa sola compiendo un percorso unico dove il punto d’arrivo rappresenta spesso una possibile ripartenza a volte “viziata” da una valutazione puramente soggettiva. Con il Sol dell’avvenire lo spettatore (morettiano e non) non sa bene cosa aspettarsi (dopo il mezzo passo falso di Tre piani), vaga nell’incertezza, continua a interrogarsi fino a quando si trova improvvisamente spiazzato e in qualche modo rassicurato da un film in cui emerge preponderante la volontà e l’urgenza di mettersi finalmente “a nudo”, frantumando a poco a poco quelle ataviche sovrastrutture a volte impenetrabili e poco empatiche. Stavolta Moretti fa sul serio, ma lo fa in modo inedito, del tutto inaspettato, lasciando da parte il personaggio per focalizzarsi sull’uomo/artista che è stato, che è e che probabilmente (non) continuerà ad essere. “Egli danza”, direbbe Orson Welles e il continuo rimando a 8½ non fa che potenziare una suggestione cinefila presente fin dai titoli di testa e poi rielaborata nel corso della storia.

Giovanni è un uomo/artista in crisi professionale, politica e sentimentale, ma è anche un uomo tenacemente ancorato al secolo scorso, capace dopo trent’anni di redigere un “caro diario” di sorprendente attualità. Lo splendido quarantenne che girava in vespa (prezioso cimelio custodito al Museo nazionale del cinema di Torino) per le vie di Roma è oggi uno splendido (quasi) settantenne che gira in monopattino per il quartiere Prati, immaginando di trovarsi in una Budapest sotto assedio. La storia che ha in mente di realizzare, ambientata negli anni ’50 con protagonista l’ex pasticcere trotzkista Silvio Orlando divenuto ora segretario della sezione del PCI del Quarticciolo, nonché redattore dell’Unità, può sembrare a prima vista di chiara matrice politica, ma la sua fede rossa ora deve fare i conti con i “se” della storia, lasciandosi abbagliare dal riflesso di un sol che punta la sua attenzione sull’avvenire di un cinema sempre meno radioso, relegato a un pubblico di nicchia e alle poche sale cinematografiche rimaste faticosamente in piedi. Se Guido Anselmi nel capolavoro felliniano vagava alla ricerca di un film che non c’era, Giovanni vaga alla ricerca di un cinema destinato a scomparire.

Kieslowski, Cassavetes, Lola, Jacques Demy sono i fantastici compagni di viaggio scelti da Giovanni per opporsi alle tanto discusse piattaforme (utili solo per le serie) e a un cinema dove tutto corre veloce, dove la violenza si riduce a puro intrattenimento. In tal senso la surreale scena in cui blocca per otto ore il sanguinolento ciak di un esagitato giovane regista opponendo una lancinante disamina su Breve film sull’uccidere di Kieslowski è a dir poco illuminante. Questo perché a Giovanni non interessa che il suo film grazie a Netflix venga visto in 190 paesi, a lui interessa che il film venga visto in sala. È il suo personalissimo atto d’amore verso il cinema e verso tutti coloro (come mostra la suggestiva parata finale ai Fori imperiali) che gli hanno permesso di vivere quel sogno che lo accompagna fino ad oggi. Tuttavia ciò che sorprende maggiormente in quest’opera avvolta da una leggiadra aura d’aprile è la disarmante sincerità con cui Moretti si “offre” al pubblico, a quel pubblico a cui dice di non pensare o forse sì. Il mondo è cambiato certo, impossibile non prenderne atto anche per un intransigente come lui.

E allora appare del tutto naturale scorgere in questo film di confessioni più o meno velate la lucida consapevolezza che col tempo (anche se di poco) le persone possono cambiare riuscendo a non “ammalarsi” di passato. Certo i sabot rappresentano ancora “una tragica visione del mondo”, così come come i “what the fuck” netflixiani, ma l’ironia e la libertà con cui si definisce delizioso sono le stesse con cui confessa alla figlia di far uso di sonniferi e antidepressivi. Si ride, si riflette e ci si commuove davanti a un film legato ad un passato da cui non si può guarire, ma solo lasciarsi accarezzare, magari immaginando scene di pellicole mai realizzate piene di canzoni italiane da gridare in auto a squarciagola. La prima stesura del film, uscito in 500 copie il 20 aprile e in concorso al prossimo festival di Cannes, risale a giugno 2021. Una data non proprio banale perché si colloca nel mezzo di due avvenimenti epocali tutt’ora “scoperti”: l’invasione del Covid 19 nel 2020 e l’invasione russa ai danni dell’Ucraina nel 2022. Tuttavia, nonostante le apparenze e inquietanti similitudini (l’idea di girare un film ambientato negli anni cinquanta sull’occupazione russa in Ungheria), la pellicola resta del tutto indipendente, libera dai macigni del presente. Una libertà travolgente che invita tutti a danzare come zingare nel deserto o a girare come dervishes turners, magari dentro una stanza non più del figlio, ma di un’alba trovata dentro l’imbrunire.

Rispondi